Alternativa corporativa, di Raffaele Delfino
RAFFAELE DELFINO
ALTERNATIVA CORPORATIVA
Quaderni di RINNOVAMENTO
Collana sociale - N. 3
stabilimento tipografico colombo, s.l. s.d.
Discorso pronunciato alla camera dei Deputati nella seduta del 24 giugno 1964
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l'onorevole Delfino, relatore di minoranza.
DELFINO, Relatore di minoranza. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il dibattito ha confermato la valutazione dei relatori di minoranza del Movimento sociale italiano: essere cioè questo bilancio un documento rigido, senza una caratterizzazione nuova rispetto ai precedenti.
Una caratterizzazione diversa che pur sarebbe stata pretesa dalla particolare condizione di essere questo un bilancio di congiunzione tra il vecchio e il nuovo tipo; che soprattutto avrebbe dovuto imporre il tempo di congiuntura in cui si colloca: in un momento di crisi economica e in una, vigilia di programmazione.
La discussione, infatti, che si è svolta, si è imperniata sulla situazione economica e sulle prospettive della programmazione, m a prescindendo del tutto dal documento del bilancio che non offriva e non offre alcun argomento di valutazione e di prospettiva, se non quello di un giudizio negativo sulla capacità del Governo di utilizzare il bilancio dello Stato quale primo e immediato strumento per la stabilizzazione e lo sviluppo economico del paese.
La rigidità di questo bilancio è il frutto di due posizioni divergenti: quella del ministro del tesoro, orientato al raggiungimento del pareggio, e quella del ministro del bilanciò, che ha rivendicato la necessità del deficit spending.
La posizione del ministro del tesoro c i sembra più conforme all'attuale realtà economica e finanziaria del paese. E coincide con quella della Comunità economica europea che ha posto la riduzione della spesa pubblica come la prima tra le raccomandazioni formulate al nostro Governo in base all'articolo 108 del trattato di Roma.
Riforme e congiuntura.
Puntare su una politica di deficit spending in questo momento - e richiedere l'attuazione immediata di certe riforme significa deficit spending - vuoi dire andare verso l'inflazione.
Il deficit spending si finanzia infatti attraverso il debito pubblico e richiede, come condizione essenziale per non promuovere inflazione, un aumento immediato della produzione e del reddito reale, di fattori cioè che impediscono al livello dei prezzi di salire.
Si può forse affermare che la riforma regionale e quella urbanistica determineranno un aumento immediato della produzione e del reddito reale? È poi il caso di ricordare a certi neokeynesiani improvvisati che affinché il meccanismo del «moltiplicatore» del Keynes funzioni è necessario che in ogni sua fase «vi siano fattori produttivi disponibili, in modo che l'offerta dei vari beni possa sempre adeguarsi alla domanda addizionale che di essi si esercita in virtù del processo espansivo. In caso contrario il processo avrebbe luogo non in termini reali ma in termini monetari; esso cioè sarebbe costituito da aumenti di prezzi anziché da aumenti di produzione».
In Italia già consumiamo più di quel che riusciamo a produrre. E per molti di questi consumi, come quelli alimentari, non vi son o fattori produttivi immediatamente disponibili. L'aumento addizionale dei consumi determinerebbe un ulteriore aumento dei prezzi, tanto è vero che il Governo ha dichiarato la guerra ai consumi.
Come mostra allora il Governo di centrosinistra di voler risolvere queste contraddizioni tra le velleità di certe riforme e la inesorabilità delle leggi economiche? Non resta che l'imposizione fiscale: ed è la strada che il Governo ha imboccato e continua a percorrere, generando altri insanabili squilibri nella produttività e nella competitività, essendo ormai la pressione fiscale arrivata a un limite oltre il quale c'è la rottura e la diminuzione dell'offerta.
C'è poi l'ultima trovata: il risparmio contrattuale.
Il rifiuto dei sindacalisti della C.G.I.L., le riserve espresse nell'ambito dello stesso partito di maggioranza l'hanno già condannato nella sua possibilità di pratica realizzazione. Di esso perciò parleremo nella seconda parte del nostro intervento, che dedicheremo alle prospettive future.
Per concludere questa prima parte vogliamo ribadire la nostra deprecazione per questa occasione perduta del bilancio semestrale: perché proprio il bilancio semestrale in discussione avrebbe potuto offrire lo strumento più idoneo per accingerci a dare un riassetto organico alla confusione, programmatica e congiunturale insieme, in cui versa la nostra economia.
LA MALFA, Presidente della Commissione.
Onorevole Delfino, quando parla delle riforme, ella non tiene conto di un concetto che è stato già espresso. Le riforme vanno valutate secondo il loro costo immediato e il loro rendimento futuro. chiaro che certe riforme dal punto di vista del reddito non hanno un effetto immediato. Se questa fosse una remora alle riforme, la società sarebbe immobile.
DELFINO, Relatore di minoranza. Onorevole La Malfa, ella, nella seduta di mercoledì 17 giugno, interrompendo l'onorevole Scalìa, ebbe ad osservare, come testualmente riferisce il Resoconto sommario di quella seduta, che «fu proprio un errore del primo Governo di centro-sinistra dell'onorevole Fanfani, cui egli stesso ebbe a partecipare, quello di non aver compreso il profondo nesso fra situazione congiunturale e situazione strutturale».
C'è da compiacersi per questa autocritica dell'allora ministro del bilancio, ma c'è anche da meravigliarsi che un esperto della teoria e della pratica economica, qual è l'onorevole La Malfa, sia oggi costretto ad ammettere un così marchiano errore di valutazione che, nella nostra inesperienza, non commettemmo quando, intervenendo nella discussione sul bilancio presentato proprio dal ministro La Malfa, tenemmo a sottolineare - e gli Atti parlamentari ce ne fanno fede - che il terreno economico è il meno adatto ad esercitazioni sperimentali, in quanto ogni esperimento è destinato a lasciare un profondo segno non solo nella congiuntura, ma anche nelle strutture.
E se due anni or sono, in occasione del dibattito sulla nazionalizzazione dell'energia elettrica, manifestammo tale motivata preoccupazione, è con assai amaro compiacimento che dobbiamo prendere atto della tardiva resipiscenza non solo del ministro del bilancio di allora, ma persino dell'allora Presidente del Consiglio.
Una resipiscenza, del resto, che è lungi dall'essere condivisa da tutto l'arco della maggioranza di centro-sinistra. Tant'è vero che l'onorevole Lombardi ancora domenica scorsa sull'Avanti! tornava a ribadire l'affermazione di principio già enunciata due anni or sono dall'attuale ministro del bilancio, onorevole Giolitti, e cioè che «le riforme sostanziali non sono né neutre né indolori», senza tenere in alcun conto un principio va - lido in qualsiasi sfera dell'umana attività, e cioè che di più deleterio d'un dolore inutile c'è solo un dolore malefico. Mentre resta da dimostrare che i dolori provocati dal centrosinistra nell'organismo economico siano in alcun modo benèfici.
Di dimostrato ci sono, invece, i danni, come testimonia la nostra crisi economica e finanziaria.
Ma di questo vi parlerà l'onorevole Nicosia. Nella divisione dei compiti che ci siamo assunti quali relatori io mi occuperò di quella parte della discussione del bilancio che – prescindendo nella sostanza dal bilancio stesso – si è sviluppata sul tema del più lungo periodo della nostra politica economica.
La ricerca di una nuova sintesi.
Discussione che noi giudichiamo esser e stata utilissima: perché ha chiarito posizioni incerte, ha fatto giustizia di illusioni impossibili, ha svelato intenzioni finora più o men o mascherate, ha rivelato, o confermato, limiti e contraddizioni di atteggiamenti e di iniziative. Per quanto ci riguarda ha rafforzato le nostre tesi, confermandocene almeno implicitamente la validità, e confortandoci della giustezza delle nostre alternative, che non si esauriscono in una alternativa autarchica né in quella di una economia burocratizzata, e neppure in quelle della destra economica, e cioè liberistica, come abbiamo chiaramente dimostrato nella nostra relazione di minoranza. Anche se alcuni colleghi intervenuti nel dibattito hanno voluto disconoscerla, per la comodità di relegarci in posizioni che non sono nostre, anche a costo di cadere in luoghi comuni noiosissimi e niente affatto obiettivi.
Il dibattito, il dialogo parlamentare trova la propria validità nella misura in cui son o chiare le reciproche posizioni e non s'ignorano, o peggio si falsano, quelle altrui.
Tale esigenza fondamentale e permanente era questa volta facilitata dalla presenza di relazioni, di documenti scritti di tutti i gruppi politici, tanto di maggioranza quanto di minoranza. Prescindere del tutto da essi, o almeno da qualcuno di essi, come hanno fatto alcuni oratori, non è stato dialetticamente utile né politicamente corretto.
Ma anche quello della incapacità al dialogo è un elemento di ulteriore chiarificazione di certi atteggiamenti sedicenti «democratici» per antonomasia, che sfogano e riversano nel settarismo, nell'accusa dogmatica o nella colposa intenzione altrui, non provata, né provabile, la propria impotenza e le non risolte interne contraddizioni.
Siamo, onorevoli colleghi, in tempo di de-mistificazioni. I miti crollano in tutto il mondo.
L'uomo e la società li stanno facendo cadere, nella ricerca di un equilibrio e di un ordine nuovo. Esempi non. servono. Anche se potrei citarne tanti: dalla destalinizzazione di Kruscev alla decentrosinistrizzazione di Fanfani.
Vorrei ricordarvi soltanto che però la demitizzazione del fascismo non l'ha compiuta l'antifascismo, in quanto l'aveva già realizzata, dopo 1'8 settembre 1943, lo stesso Mussolini nella repubblica sociale, quando con il manifesto di Verona riconobbe l'errore delle nomine dall'alto, e con la legge sulla socializzazione puntò a liberare l'idea sociale dalle pastoie del burocraticismo e del capitalismo.
Da quel travaglio, da quell'esperienza drammaticamente sofferta, da quella meditata revisione, da quella, se più vi piace, «auto - critica», è nato il Movimento sociale italiano, esercitando una profonda attrazione anche e soprattutto sulle generazioni giovani che, come la mia, nulla avevano da rimpiangere né, in definitiva, da rinnegare, neppure per pagare questo ovvio prezzo al conformismo o all'opportunismo.
Noi sentivamo, con l'intuizione propri a degli anni più giovani, l'esigenza di rifiutarci all'atmosfera impregnata di miti, di assiomi, di dottrinarismi e di utopie che ci circondava.
Ed alla freddezza di ciò che ci si voleva imporre come verità assiomatica, preferimmo la ricerca faticosa di una realtà vivida e vera, e soprattutto impregnata di coerenza, qual era stata quella dei Berto Ricci, dei Guido Pallotta, dei Nicolò Giani.
E la prima intuizione diveniva successivamente documentata certezza, che nell'innesto nella tradizione più schietta del pensiero politico italiano fosse da trarre l'indicazione delle scelte e delle soluzioni più connaturali alla realtà della nostra nazione.
Ci si doveva rifare al travaglio cultural e che accompagnò, ed in gran parte alimentò, lo sforzo risorgimentale e che dalla generazione dei Mazzini, dei Gioberti, dei Pisacane, dei Brofferio, trasmise a quella dei Crispi e dei Depretis, alla «sinistra storica» cioè e poi anche alla «sinistra giovane», l'esigenza di rispettare, ed anzi di esaltare i principi, senza farsi però irretire negli schemi e ne i dogmi delle stagnanti partizioni politiche ed ideologiche.
Né si doveva sottovalutare il parallelo impegno con il quale non solo il Toniolo, m a anche il De La Tour du Pin, il movimento francese degli Ètats généraux, avevano teso a ricostruire l'armonia dei fattori sociali, turbata dalla predicazione classista e dalle stesse condizioni obiettive di lavoro, ricomponendola nell'ambito stesso dell'azienda produttiva.
La tradizione della «sinistra nazionale» passò da Mazzini e dalla sinistra storica e dalla sinistra giovane alla generazione di pensatori, di economisti, di sindacalisti e di politici che ebbe fra i suoi più illustri esponenti Vilfredo Pareto e Filippo Corridoni, e che tanti legami instaurò con l'opera e l'insegnamento di Giorgio Sorel nella ricerca di una sintesi che superando il liberismo capitalista ed il marxismo collettivista, risolvesse in termini di storica attualità e di politico realismo l'antico, ritornante problema dei rapporti fra l'individuo e la società, fra il cittadino e lo Stato.
La stessa esigenza viene affrontata dalla Chiesa con la Rerum novarum di Leone XIII e con la Quadragesimo anno di Pio XI, e da una larga schiera di sociologhi cattolici che unanimemente, anche se con varia motivazione, sancivano l'incompatibilità della fede cattolica tanto con l'ideologia liberale che con quella marxista.
Questa ricerca, con i vari tentativi che l'accompagnarono, non fu solo italiana. Specie negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, infatti, si esercita in tutta l'Europa, anche come conseguenza della critica agli schemi e alle leggi dell'economia classica; della contestazione delle teorie tradizionali della concorrenza e dell'occupazione; del rifiuto radicale del concetto di sovrappiù e quindi del plusvalore.
Con le nuove teorie economiche si poneva, in termini sociologici e giuridici, anche i l problema di una nuova struttura rappresentativa, al quale furono suggerite varie, m a convergenti soluzioni. Esse si tradussero in Ungheria, in Belgio, in Grecia, in Jugoslavia, in Polonia, in Irlanda nella tendenza a riservare una parte dei seggi in una delle camere politiche ad elementi professionali. Mentre consigli economici omogenei furono introdotti in Finlandia, nella costituzione tedesca del 1919, in Bulgaria, in Estonia, nel Lussemburgo.
La costituzione della repubblica federale austriaca (24 aprile 1934) prevedeva uno «Stato cristiano federale corporativo» ordinato secondo il disegno del cancelliere Dolfuss che volle ricondursi alle encicliche papali sul problema sociale.
Esperienze europee.
In questo dopoguerra la vittoria militare del sistema economico liberista e di quello collettivista non ha fermato in Europa la ricerca di soluzioni nuove.
Negli stessi U.S.A. e persino nell' U.R.S.S. sono evidenti i segni di un travaglio di un sistema che cerca di uscire dagli schemi classici.
La nuova frontiera kennedyana ha un a validità più interna, nei rapporti economico - sociali, che esterna. La revisione dell'economia centralizzata fu iniziata in Russia dallo stesso Stalin, come dimostra il suo ultimo documento: Problemi economici del socialismo nell'U.R.S.S.
Ma sono – a nostro avviso – tentativi che hanno una validità solo come testimonianza di una crisi: non è con le ibridazioni che vecchie piante possono dar vita ad un nuovo albero sociale.
In Europa possiamo classificare almeno tre tipi di tentativi che vanno sotto il nome di programmazione: quella scandinava, quella inglese, quella francese.
Non è questa la sede per una analisi completa di questi tre modelli. Essendo però l'Italia alla vigilia della programmazione, è opportuno ricordare come ovunque la programmazione sia nata dalla necessità di promuovere uno sviluppo economico equilibrato che, salvando la libertà dell'iniziativa individuale, la indirizzasse verso risultati di migliore benessere collettivo.
La programmazione, cioè, è nata da un preciso stato di necessità, questa volta vero e reale: ricercare una nuova sintesi oltre i l liberalismo ed il collettivismo marxista. È stata trovata questa sintesi? In Norvegia la programmazione dei laburisti, dopo la positiva opera della ricostruzione, ha portato quel paese in una posizione «stagnante, ferma, incapace d' espandersi. Negli anni cinquanta il reddito nazionale è aumentato annualmente col basso ritmo del 3 per cento. La percentuale del risparmio che nel 1954 era del 17 per cento nel 1960 è rimasta del 17 per cento perché la pianificazione è stata una perfetta macchina di distribuzione dei redditi ma un pessimo congegno d'accumulazione e di investimenti».
In Inghilterra, la programmazione dei conservatori è morta sul nascere: il rifiuto delle Trade Unions alla politica dei redditi sancita nel congresso dello scorso autunno ha svuotato di ogni contenuto l'iniziativa programmatica del cancelliere dello scacchiere e del consiglio per lo sviluppo economico.
In Francia dopo vent'anni il bilancio della programmazione francese ci dice che, oltre i risultati positivi nella ricostruzione e nella gestione delle industrie nazionalizzate, l'ambizioso traguardo di «concertare» l'economia creando una nuova società non è riuscito. Il tentativo della armonizzazione tra sindacati e industrie è fallito. La lotta di classe continua.
La revisione di Mendès-France.
Ma continua anche la ricerca, ovunque, di una sintesi nuova. Ne voglio portare un a testimonianza insospettabile: quella di Mendès-France.
BARCA, Relatore di minoranza. Non a caso Mendès-France è un fallito e ha aperto la strada ad una involuzione a destra.
LA MALFA, Presidente della Commissione. Il partito comunista ha portato ad una involuzione in Francia: c'è un libro a questo riguardo.
BARCA, Relatore di minoranza. Ho voluto soltanto dire che i fatti hanno dimostrato che Mendès-France è stato sconfitto.
DELFINO, Relatore di minoranza. Allora le dirò che Mendès-France nel suo ultimo libro La repubblica moderna ha dato anche un'analisi dei motivi di quella sconfitta. Egli afferma che la quarta repubblica in Franci a e fallita perché era stata fatta sul modello della terza. E qui in Italia la democrazia è stata ricalcata sul modello di quella liberale del 1922. Ciò nonostante che il maggior partito italiano di questo dopoguerra, cioè la D.C., si fosse presentato al paese nel 1943 con le «Ide e ricostruttrici della democrazia cristiana», il manifesto di Alcide De Gasperi, che pur rimproverando al fascismo di aver burocratizzato l'idea corporativa, proponeva un nuovo Stato sempre fondato sul corporativismo.
Ma, tornando a Mendès-France, vorrei citare dal suo ricordato libro: «Mentre lo Stato estendeva le proprie competenze a tutto un vasto settore la cui sostanza è intessuta di realtà economiche e sociali, i partiti hanno assistito alla recente affermazione, accanto ad essi, di giovani forze democratiche che rappresentavano queste realtà. Se l'Assemblea eletta a suffragio universale continuerà ad esprimere come prima le correnti ideologiche in lizza nel paese, la seconda Assemblea sarà concepita in modo da rappresentare i gruppi sociali e gli interessi professionali, forze nuove che debbono partecipare alla vita dello Stato, e alle quali lo Stato deve riconoscere una funzione… Ciò non toglie che queste riforme non incontreranno il favore di certi democratici della scuola tradizionale» (il liberale onorevole Cocco Ortu potrebbe bene inquadrarsi con tutti i suoi colleghi di gruppo in questa categoria). «A costoro va ricordato che nel XX secolo l'attività degli organi dello Stato s i rivolge con un crescendo sempre maggiore agli affari economici, alla produzione, alla distribuzione; che un Parlamento di tipo classico è tutt'altro che preparato ad affrontarli, che esso tende a considerarli da un punto di vista semplicemente elettorale; che è troppo debole per resistere ai gruppi di pressione e che, in - fine, un adeguato controllo della vita economica è condizione dell'esistenza e del funzionamento di un potere veramente democratico.
Per tutti questi motivi, accanto all'Assemblea che esprime le differenze ideologiche e politiche, si rende necessaria la presenza dei gruppi sociali e professionali in una seconda Assemblea dotata di poteri effettivi.
Con questo sistema, ogni individuo si trova rappresentato due volte e sotto due forme diverse: in primo luogo, secondo le sue aspirazioni e le sue volontà politiche, attraverso i l suffragio universale che designa l'Assemblea nazionale; in secondo luogo, secondo la sua condizione economica e professionale, la sua classe, in un'Assemblea che pone gli uni di fronte agli altri i produttori e i consumatori costituenti la collettività».
E Mendès-France in questi termini anticipatamente risponde alle solite, scontate critiche: «Si potrà forse rimproverare, alle pro - poste testé fatte e ad alcune di quelle che faremo più avanti, di presentare gli inconvenienti del corporativismo. Ma il corporativismo è pericoloso solo se, da una parte, alle organizzazioni professionali si dia il diritto di prendere, sotto la loro esclusiva responsabilità, decisioni obbligatorie per tutti quelli che ne dipendono o se, dall'altra, strutture istituzionali, stabilite sulla base di una situazione data, rimangono immutabili men - tre la realtà economica è in continuo movimento».
Riflettete, onorevoli colleghi, che quella che vi ho citato è presentata come «l'esposizione più lucida e completa delle idee e dei programmi della sinistra radicale e democratica». E si tratta chiaramente di una impostazione corporativa fatta dall'erede di quella tradizione giacobina che nel 1791 soppresse in Francia le corporazioni.
È importante questa testimonianza di un travaglio e di una crisi radicale e democratica. È significativo che nel corso della sua esposizione Mendès-France affermi anche che i n una prima fase la nuova rappresentanza dovrà avvenire per designazione: sono così serviti tutti coloro che interessatamente vogliono far passare per sistematico quel che era in Italia una necessaria forma transitoria, determinata anche dal comando di un solo uomo al quale lo stesso fascismo, nell'interesse superiore della nazione impegnata in una realtà internazionale in movimento, sacrificò la su a stessa dialettica interna che, per esempio, nel convegno di studi corporativi di Ferrara de l 1933 era arrivata a registrare posizioni che andavano molto al di là di certo progressismo odierno.
Politica dei redditi e socializzazione
In Italia l'antifascismo non ha ancora il coraggio di certe analisi e di certe revisioni come quella di Mendès-France.
La democrazia cristiana si era presentata corporativa; fu corporativa sino alla Costituente e nella seconda Sottocommissione dei lavori della Costituente difese i suoi principi fino al compromesso con i comunisti rappresentato dall'attuale Carta costituzionale.
Il corporativismo fu abbandonato e respinto come una colpa.
Oggi se ne riparla. Se ne è riparlato lungamente in quest'aula. Anche se per rivolgere accuse o per negare intenzioni. Se ne è parlato in relazione alla programmazione e alla politica dei redditi, cioè al futuro della nostra economia.
La programmazione arriva in Italia in ritardo rispetto al resto d'Europa. Così pure la politica dei redditi, che l'onorevole L a Malfa vorrebbe far passare come una sua invenzione. Sotto il nostro cielo non c'è troppo di nuovo.
Dal Dizionario di politica edito dal partito nazionale fascista sotto la voce «rimunerazione corporativa» a pagina 60 del quarto volume si può leggere:
«Il punto di vista della produttività globale del paese si afferma come il criterio con cui si misurano, regolano, controllano e fissano i prezzi, i salari, gli stipendi, i dividendi».
Non ci sembra che il Governo di centrosinistra tenga conto delle esperienze europee. Non ci sembra che l'attuale maggioranza si sforzi molto nel ricercare alla radice le cause dei limiti incontrati dagli altri paesi. Non ci sembra che questo Parlamento voglia dare i l suo contributo a questa ricerca. Noi del Movimento sociale italiano pensiamo di poterlo dare, con i nostri programmi, con le nostre valutazioni. Perché è fallita in Europa la politica dei redditi?
Perché, onorevoli colleghi, è nell'azienda che si può realizzare veramente una politica del reddito. Ed è nell'azienda che il risparmio contrattuale si realizza veramente a favore dei lavoratori.
Nell' azienda socializzata, cioè. Nella quale lavoro e tecnica, capitale e risparmio condividano insieme le responsabilità e i benefici della gestione, ed equamente ne dividano i profitti. Che solo in questo caso non sono in alcun modo «sopraprofitti».
No, onorevole Scalìa, i sindacati non risulterebbero «mummificati» dal riconoscimento giuridico, ma ne deriverebbero, all'opposto, una possibilità concreta di effettiva emancipazione dai partiti, ciascuno dei quali altro non è che instrumentum regni delle varie fazioni nelle quali si divide l'oligarchi a politica oggi imperante.
E soltanto da un sistema sindacale emancipato dai partiti si potrebbe derivare quella collaborazione, vivificata dalla dialettica degli interessi e non compromessa dalle pregiudiziali classiste, nella quale le categorie social i ed i settori economici sarebbero chiamati ad effettiva corresponsabilità nel potere decisionale che solo può dar vita ad una efficiente programmazione economica.
Liberali e comunisti contro la programmazione.
Una siffatta visione che porta il lavoratore alla gestione dell'azienda oltre che alla partecipazione al reddito, e quindi al profitto aziendale, e alla direzione responsabile della programmazione nazionale, è tuttavia respinta all'unisono tanto dai sindacalisti come Storti e Scalìa quanto dai marxisti come Novella o Foa o Lama o Lombardi, quanto dall'onorevole Malagodi e dalla destra economica.
In un suo recente articolo sul Giornale d'Italia, quotidiano fra i più vicini alla Confindustria, il leader del partito liberale respingeva, in data 16 giugno 1963, il risparmio contrattuale, in quanto «rafforzerebbe – son o parole dell'onorevole Malagodi – la tendenza a sostituire il sistema delle libertà democratico-parlamentari con un sistema autoritario corporativo».
Ma l'onorevole Malagodi forse non aveva letto, su un recente numero della comunista Rinascita, quanto scriveva l'onorevole Togliatti esaltando in pratica anche lui lo stesso sistema che noi definiamo di irresponsabilità sindacale che, secondo Togliatti, «si esprime attraverso la resistenza e la lotta organizzata della classe operaia».
Nello stesso articolo, del resto, l'onorevole Togliatti esaltava a suo modo la programmazione «democratica» (ed è quanto dire la programmazione realizzata sul terreno della lotta di classe e quindi « non indolore », proprio come la vogliono il ministro Giolitti e la sua ninfa Egeria Riccardo Lombardi), con queste parole:
«Essa tende con misure di controllo e con misure di intervento nella sfera delle decisioni economiche, non già ad impedire l ' azione con la quale le forze del lavoro si sforzano di contestare le leggi del profitto capitalistico, ma anzi a contestare e limitare essa stessa il dominio di queste leggi, a distruggere posizioni di sopra profitto, di speculazione e d i rendita, a passare gradualmente alla collettività il potere di decisione relativo ai più grossi problemi che angustiano la vita del paese».
Quindi, riassumendo: tanto Togliatti quanto Malagodi respingono la «politica dei redditi».
L'uno e l'altro si vantano di respingere una visione «corporativa» nella quale i sindacati e le aziende produttive, i settori economici e le stesse categorie sociali troverebbero organica funzione, in una articolata rappresentatività dei produttori in quanto tali nella struttura istituzionale dello Stato.
Fra i due poli opposti ma convergenti, le varie posizioni confluenti nel centro-sinistra annaspano nel mare delle contraddizioni alle quali non intendono rinunciare e dei problemi che non sanno risolvere neppure quando son o state esse stesse a crearli. Com'è nel caso dell'attuale congiuntura economica.
Assistiamo così al contemporaneo fallimento dei tentativi del liberismo di aggiornarsi alle nuove esigenze della economia sociale, e di quelli del marxismo di decentralizzare la sua rigida visione dommatica per adeguarla alla mobilità della dinamica reale dei fattori della storia e della stessa economia.
Al centro di questi due fallimenti, il fallimento ancora più evidente del centro-sinistra come formula oltre che come programma, tesi entrambi a determinare una impossibile simbiosi fra il classismo e l'economia di mercato, fra le libertà politiche ed il caos sindacale, fra il neo-capitalismo delle aziende di Stato e la demagogia dell'equa, ma astratta, distribuzione dei redditi.
Lo Stato del Lavoro.
Ed è in un'ora grave come questa che i l discorso fra le varie componenti politiche, e partitiche, del nostro sistema rappresentativo si fa più confuso, vero e proprio dialogo fra sordi. Che hanno il torto di non essere anche muti.
Occorre spezzare questo circolo vizioso!
Il discorso della nazione, e per la nazione, va ripreso, sui binari delle fondamenta risorgimentali dello Stato nazionale, laddove fu bruscamente interrotto.
Anche perché non è un discorso solo italiano. Tutti i popoli – come abbiamo documentato – vivono un travaglio, una crisi. Non è solo la crisi del centro-sinistra che sta per cadere su un articolo del bilancio concernente la pubblica istruzione.
È la crisi dello Stato, che non si è adeguato nel suo contenuto e nelle sue strutture alla realtà.
Una crisi che l'onorevole Cocco Ortu ieri sera non ha voluto assolutamente ammetter e nel suo intervento.
Forse perché è la crisi dello Stato liberale, che non può sopravvivere a una società modificata.
Una società in cui il lavoro prende sempre più coscienza del proprio essere, del proprio valore, postula uno Stato che modifichi le sue strutture, cambi la sua rappresentanza, rinnovi i suoi contenuti.
Nella civiltà del lavoro, Io Stato non può che essere lo Stato del lavoro.
E il lavoro nello Stato non lo possono rappresentare i cosiddetti partiti dei lavoratori, m a le categorie sociali qualificate nel lavoro con i propri interessi destinati a sintetizzarsi nel - la realtà dello Stato.
Se lo Stato liberale non vuoi diventar e Stato comunista, deve diventare Stato del lavoro.
È una alternativa non solo nostra, ma d i quanti sentono e vivono l'attuale crisi e l'attuale travaglio della società e dello Stato, anche se non ne hanno ancora individuato le origini ed annaspano quindi nella ricerca di soluzioni parziali o si illudono in mediazioni impossibili.
È un'alternativa che qualche tempo fa poteva sembrare l'impossibile sfida di una minoranza ma che oggi, con l'evolversi della situazione, si configura sempre più come la certezza di un incontro con quanti credono in uno Stato del lavoro. (Applausi a destra — Congratulazioni).
Elaborato dallo stenografico (IV LEGISLATURA - DISCUSSIONI - SEDUTA DEL 24 GIUGNO 1964 pagg. 8411 – 8418)