Lettera aperta “alle madri e ai padri di Famiglia” - novembre 2011
Vorrei rivolgermi a noi.
Noi che non abbiamo fatto la guerra, non abbiamo partecipato al boom economico, noi che abbiamo sfiorato il 1968 oppure ne abbiamo solo sentito parlare.
Noi che nella migliore delle ipotesi siamo stati definiti la generazione del riflusso. Riflusso dall'impegno politico, sociale, culturale, capirai che complimento
Noi che oggi siamo diventati “madri e padri di famiglia” figura rilevante anche per il codice civile, ma nessuno sembra essersene accorto.
Sì, insomma, proprio noi che passeremo dall'essere troppo giovani all'essere troppo vecchi senza soluzione di continuità.
Ecco a noi vorrei fare un appello.
Troviamo finalmente la coscienza sociale e politica dalla quale ci accusavano di aver rifluito e magari mettiamoci dentro anche un po’ di solidarietà generazionale ed un pizzico di voglia di rivincita e forse anche un po’ di stanchezza nei confronti di una realtà che ci penalizza, ci sfrutta, ma ci ignora.
Se non per noi almeno per i figli di cui siamo genitori orgogliosi e se magari non ne abbiamo facciamolo almeno per quelli degli altri, oppure per un ritrovato orgoglio o più semplicemente perché non ce la facciamo più.
Non ce la facciamo più di una Costituzione che non abbiamo scritto, che ci hanno spiegato non si può cambiare, o solo con grande difficoltà, che ci limita, ci condiziona e spesso ci mente.
Non ce la facciamo più di una gestione fallimentare della nostra economia, dato che poi la carretta la dobbiamo tirare noi. Non ce la facciamo più di aver ereditato senza neppure il beneficio dell’inventario, il debito pubblico nei confronti del quale non abbiamo responsabilità, comunque lo dovremo pagare, vedendo i nostri soldi gestiti da chi il debito pubblico lo ha determinato, come se fosse possibile vedere il fallito nominato curatore fallimentare.
Non ce la facciamo più di vedere che l’Italia è l’unica Nazione nel mondo occidentale dove a sessant’anni si è ancora giovani con il risultato che la nostra democrazia si è trasformata in gerontocrazia.
Non ce la facciamo più di vedere l’Italia minata, maltrattata dentro e fuori i confini, non ce la facciamo più di sentire chi ci spiega che il senso di appartenenza Nazionale corrisponda all'integrità territoriale e a poco d’altro, svincolandola da concetti quali: responsabilità, solidarietà, orgoglio. Quasi come se il senso di appartenenza non fosse principalmente un moto dell’anima.
Abbiamo visto delegazioni,di cui non facevamo parte se non come portaborse o come silenti comparse, andare in Europa o con l’andazzo dei furbetti del quartierino o con il cappello in mano. Mai un pugno sul tavolo teso se non altro a ricordare che senza l’Italia, la sua storia, la sua cultura, la sua tradizione e la sua economia l’Europa non sarebbe.
Non ne possiamo più di essere solo merce di scambio, carne da sondaggio, branco da voto, mercato potenziale e quant'altro attenga solo ed esclusivamente ad una logica mercantile, quasi non fossimo adatti a gestire, determinare e guidare.
Oltre a ciò non ce la facciamo più di un sacco di altre cose.
Allora? Allora è il tempo di uno scatto d’orgoglio, forse è già tardi, ma non è troppo tardi.
Per lo scatto d’orgoglio però non basta l’indignazione; l’indignazione è ben poca cosa senza proposizione, senza proiezione e senza impegno. Ecco l’impegno fuori dalle categorie del pensiero che ci hanno tramandato e che hanno permesso alle gerontocrazie di consolidarsi. Il primo secolo del terzo millennio deve appartenere alle nostre eresie, alle nostre sensibilità, alla nostra capacità.
Usciamo dall'angusto recinto dell’impegno solitario e ritroviamo un impegno comune, nel nome di un futuro che meritiamo e che soprattutto meritano i figli di cui siamo genitori. Non commettiamo l’errore di disperderci in case d’altri, verremmo usati, sfruttati e fagocitati come a molti di noi è già successo. Costruiamo la nostra casa e da li cominciamo la costruzione di una nuova società.
Dobbiamo avere il coraggio di puntare al domani senza cadere preda di vecchie menzogne o di nuove nostalgie, ma puntare al futuro senza tentennamenti e con la mente sgombra da condizionamenti passati. Puntare al futuro ecco la sfida.
Quindi la domanda sorge spontanea: qual è il futuro che vogliamo per noi e per i nostri figli?
Nell'Italia che vorremmo l’attenzione all'ambiente, quale eredità doverosa da lasciare a chi verrà dopo di noi, diventa scelta politica abbandonando la stucchevole dimensione di slogan elettorale.
Nell'Italia che vorremmo la scuola diventa vita e maestra di vita, non spacciatrice esclusiva di dogmi ed assiomi, forse utili ma non bastevoli per creare cittadini probi e forse nemmeno cittadini dotti.
Nell'Italia che vorremmo le regole del gioco politico vengono cambiate attraverso la sintesi e non attraverso la contrapposizione.
Nell'Italia che vorremmo i sacrifici, se necessari, li fanno tutti non solo i soliti noti.
Nell'Italia che vorremmo la finanza e le politiche bancarie hanno un volto umano e non il cinismo dell’affarista senza scrupoli.
Nell'Italia che vorremmo il sindacalismo è un opportunità e non una palla al piede per lo sviluppo.
Nell'Italia che vorremmo la ricchezza viene distribuita in maniera più equa, ad esempio con l’introduzione del divieto di cumulo dei redditi pubblici.
Nell'Italia che vorremmo l’alternanza tra le generazioni diventa una normalità armonica e non una lotta fratricida.
Nell'Italia che vorremmo le opportunità e le capacità prevalgono sul “dì che ti mando io”.
Nell'Italia che vorremmo il rigore di bilancio fa rima con il taglio delle spese infruttifere e non con l’incremento della pressione fiscale.
Nell'Italia che vorremmo lo Stato si rende garante della sicurezza non solo con norme e sanzioni ma anche attraverso politiche tese all'educazione della sicurezza e del rispetto.
Nell'Italia che vorremmo viene posto un limite agli emolumenti elargiti dallo Stato e dalle partecipazioni dello Stato.
Nell'Italia che vorremmo “privato” non è una brutta parola, ma neppure Statale lo è.
Nell'Italia che vorremmo il passato finalmente è passato e non continua a trascinarci all’indietro.
L'Italia che vorremmo in Europa non si presenta remissiva ma propone, chiede, condiziona con idee che permettano anche una via italiana al miglioramento dell’Unione Europea.
L'Italia che vorremmo non gioca a fare la grande potenza in sedicesima ma è conscia di se e tanto le basta.
L'Italia che vorremmo non subisce le scelte di politica altrui, ma ne pone di proprie autonome e autorevoli.,
L'Italia che vorremmo riscopre la sua vocazione mediterranea e mette in atto delle politiche autonome e conseguenti. L’Italia che vorremmo rilancia le sue peculiarità, le valorizza e le tutela.
L'Italia che vorremmo è questo e molto altro ancora.
Secondo noi l'Italia che vorremmo è possibile. Speriamo che qualcuno voglia ascoltarci e la pensi come noi.
In caso contrario faremo da soli.