ROTTA FUTURA

27 gennaio - intervento di Gianni Alemanno

  Giovanni Alemanno: AUDIO

Siamo tutti terribilmente consapevoli di cosa significa questo congresso per noi, per un mondo che si trova, a 40 anni dalla sua nascita, con una storia fatta di sangue, di sofferenze estreme, di grandi difficoltà, di grandi menzogne che ci sono gravate addosso.
Ecco, questo nostro mondo è chiamato a uno sforzo di superamento, a una sfida, che se ci riuscirà sarà degna di andare veramente dentro ai grandi momenti della storia di questa nazione. Una sfida. Una sfida perché, vedete, io credo che il Movimento Sociale Italiano, Alleanza Nazionale, sia oggi chiamato a muoversi all'interno di un sentiero stretto, sia chiamata a muoversi tra due opposti errori che deve riuscire a superare con intelligenza, con capacità di sintesi, ma anche con grande sforzo morale, spirituale e umano.
Sarebbe troppo semplice, cari amici, cari camerati, sarebbe troppo semplice pensare che per noi il problema sia soltanto quello di transitare, da un'esperienza nostalgica, da un'esperienza legata al radicamento nel passato, tra un'esperienza di forte ripulso, di radicale ripulso, di radicale opposizione a quella che è stata la prima Repubblica, a un'esperienza di governo, a un'esperienza di integrazione, a un'esperienza di entrata piena dentro la vita politica italiana, segnata magari da una serie di esami, da una serie di analisi del sangue, fatte da gente che queste analisi del sangue, che questi esami non avevano mai pensato di farli a Giulio Andreotti, a Bettino Craxi, a tutte le persone che hanno rappresentato in questi quarant'anni il fronte articolato dell'antifascismo, quell'arco costituzionale che ci ha emarginato. Se fosse soltanto questo, ci sarebbero molte argomentazioni, ci sono molte argomentazioni, più o meno realistiche, più o meno retoriche, che possono spingere verso questa situazione. Si può parlare della necessità del popolo italiano, si può parlare della necessità di mettere magari molti sogni nel cassetto, di diventare politicamente adulti e di dire affrontiamo le nostre responsabilità di governo.
Ma vedete, io credo che non di questo si tratta. Io credo che di fronte alla situazione che abbiamo di fronte ci sono tre posizioni molto distinte entro cui noi dobbiamo scegliere, dobbiamo scegliere chiaramente. Perché qua il primo nostro compito è quello di smentire in termini netti e radicali coloro che dall'esterno, coloro che dai banchi paludati della cultura o dai giornali, ci dicono che la nostra scelta è fare due posizioni rigide.

Voglio citarvi, voglio citare, permettetemi, le conclusione di un libro di Piero Ignazzi, che è un autore molto intelligente se non altro perché studiava il Movimento Sociale Italiano quando del Movimento Sociale Italiano nessuno ne parlava, quando per parlare del Movimento Sociale Italiano bisognava dire e parlare "polo escluso".
Ignazzi dice: «per superare il retaggio del fascismo bisogna interrogarsi sui presupposti ideologici, prima che sulle realizzazioni da regime. Bisogna buttare a mare le ragioni per cui il fascismo nega la primazia dell'individuo sullo stato e per cui individua in un'entità collettiva, lo Stato, la nazione, un bene superiore al singolo cittadino.
Questo è lo spartiacque - dice Piero Ignazzi - tra fascismo e liberalismo».
Ecco, in questa breve frase, c'è, ci sono, le forte caudine entro cui ci vogliono fare passare.
Forte caudine culturali, forte caudine politiche, forche caudine umane.
Ci vogliono dire: «per emanciparvi, per entrare nel gioco democratico, per essere accettati da tutti, voi dovete diventare liberaldemocratici, voi dovete diventare liberali».
Ebbene, a fronte di queste affermazioni noi diciamo che esiste un'altra strada, un'altra strada di modernizzazione, un'altra strada non solo di piena accettazione del metodo democratico, ma un'altra strada che noi osiamo rivendicare come completamento, estensione e allargamento del metodo democratico e come modernizzazione che supera questi vecchi schemi entro cui questi signori ci vogliono costringere. Per arrivare a dire questo, io non credo che sia il caso di citare tanti nostri autori perché poi i giornalisti purtroppo sono i primi fautori di questi schemi e sono i primi che ci costringono dentro queste forti caudine.
Allora, per citare questi elementi io vorrei citare qualche cosa degli altri. Vorrei, per esempio, citare una frase detta alla costituente, alla costituente di questa prima repubblica, la costituente che ha dato vita allo Stato repubblicano e vorrei citare la frase di un personaggio, che oggi magari è abbastanza dimenticato, ma che all'epoca significava molto per il mondo cattolico.

La frase di un costituente, il costituente è La Pira  che dice esplicitamente, sostenendo che l'antico totalitarismo cattolico deve essere di fatto un antiliberalismo, dal momento che il liberalismo isola l'individuo, lo atomizza e dunque lo espone a essere schiacciato dal mondo autoritario, avendo distrutto tutti i corpi intermedi, tutti i corpi  sociali intermedi tra l'individuo e lo Stato. Questo, all'alba della prima repubblica, veniva detto dentro l'aula costituente, dal versante cattolico. Ma se poi noi andiamo a guardare l'ultimo rapporto Censis, che è stato fatto, questi rapporti che sono una sorta di pietra miliare dell'analisi della nostra realità, fatta da De Rita, fatti da ambiente cattolico, bene, noi vediamo che tra i principali mali che vengono addossati al nostro Stato, alla nostra Repubblica, alla nostra vita sociale, tra i principali mali si parla di un'ambigua fermentazione che si svolge oggi nella struttura sociale.

Si parla di un'ultra fluidità dentro la struttura sociale, che contraddistingue una sorta di individualismo di massa, che porta alla perdita di contorni e direzioni della struttura sociale. E quando, sempre De Rita, va a indicare gli rimedi di fronte a questo rischio dell'individualismo di massa, della perdita di contorni sociali, di riferimenti sociali, della perdita, dell'essenza della rappresentanza e della partecipazione, bene, De Rita... guardate un po' che cosa dice, dice che c'è da difendere, da far maturare tutti i soggetti intermedi, quelli che solo possono avere il ruolo di fare coscienza collettiva, in dialettica e in opposizione con l'individualismo di massa, e di fare rappresentanza in dialettica e in contrapposizione con il decisionismo aziendalista e ancora, De Rita dice:
«c'è un progressivo crescere, dentro la struttura sociale italiana, di istanze e sviluppo delle comunità locali che si stanno andando a configurare come un nuovo comunitarismo in senso e in valenza anche politica, che cominciano a configurare e fare emergere questa spinta come centrale nella struttura sociale italiana».
Queste, queste poche e brevi citazioni servono per dire che c'è un'altra strada, c'è un'altra ipotesi entro cui non ci dobbiamo andare a muovere, che è quella di costruire e di dare sostanza a un punto di riferimento che è cresciuto, che è lievitato dentro l'esperienza di Alleanza Nazionale e che ha avuto una grossa conferma, un grosso  riscontro dentro la relazione introduttiva fatta da Gianfranco Fini in questo congresso e questo termine di riferimento è quello della crescita di una destra sociale.

Destra sociale significa non certo mettere in discussione, anzi, i principi del libero mercato, non significa mettere in discussione i principi della competizione democratica e il ruolo dei partiti in essa, significa però comprendere che se noi vogliamo costruire un reale sviluppo per la nostra nazione dobbiamo attingere sopra questa base, sopra la base, sopra la soglia della piena accettazione libero mercato, sopra la soglia della piena accettazione del metodo democratico, noi dobbiamo costruire dell'altro, farlo lievitare. Questo, questo altro che dobbiamo costruire, quello che può, quello che deve essere la sostanza di questa destra sociale, deve essere una forte ripresa di quella cultura comunitaria, di quel senso dei corpi intermedi, di quel senso delle categorie. di quel senso della differenziazione dentro la struttura sociale che sono i termini entro cui noi possiamo far lievitare e crescere la nostra comunità nazionale.
Allora, allora, vedete, noi dobbiamo stare attenti, quando parliamo di destra sociale, perché anche in essa c'è un rischio. E il rischio è quello di intendere la destra sociale soltanto come un fattore di moderazione rispetto alle spinte del liberismo.
Questo rischio è stato presente nei sette mesi del governo Berlusconi; è stato presente perché in nome della destra sociale molto spesso Alleanza Nazionale ha frenato certe semplicistiche spinte verso ideali o le fantasie del liberismo di massa.
Siamo stati noi che abbiamo messo un... non un freno, ma un vaglio critico al processo delle privatizzazioni perché non dovesse essere una svendita, non diventassero svendita delle proprietà dello Stato, svendita dei gioielli di famiglia. Siamo stati noi che abbiamo chiamato alla rappresentazione delle aree depresse, siamo stati noi che abbiamo chiamato e richiamato l'attenzione ai problemi del Mezzogiorno, a quei problemi del mezzogiorno che non potevano essere risolti soltanto con lo strumento della detassazione o della defiscalizzazione. Ma vedete in quest'opera c'è il rischio di una paralisi, c'è il rischio cioè che all'interno del Polo delle Libertà si contrappongano paralizzandosi due culture diverse: una cultura che ha forte impulso liberista e una cultura a grande resistenza di tutela sociale.
Questa due culture se non trovano un punto di sintesi, uno spazio dinamico, rischiano di paralizzare l'azione del Polo delle Libertà.
Allora, vedete, per fare questo bisogna che la destra sociale si dia questo contenuto di carattere comunitario, bisogna che la destra sociale rifletta sul messaggio centrale che viene da questa cultura, che è la cultura che fece da sostrato all'esperienza corporativa, perché quando noi parliamo, e quando diciamo di corporativismo, sappiamo bene di non essere intesi dalla gente o dai mass media, sappiamo che quando noi abbiamo parlato di corporativismo, si è inteso difesa settaria, egoistica degli interessi particolari, quando noi abbiamo detto "corporativismo" si è detto e si è pensato che noi volessimo in qualche modo tornare sulle maglie dello stato totalitario, ma in realtà il problema era diverso, c'era qualcosa dietro, l'istanza corporativa che deve essere compresa e salvata e appunto l'istanza della valorizzazione dei corpi intermedi, della concretizzazione della strutturazione della società civile come fatto di rappresentanza, come fatto di crescita sociale, come fatto di crescita umana. Su questo ci dobbiamo misurare e su questo potremmo possiamo trovare punti di sintesi.
Quando noi facciamo dell'anti statalismo un punto di riferimento del Polo delle Libertà, bene, questo anti statalismo può andare in due direzioni diverse: anti statalismo può voler dire consegnare tutti gli spazi liberati da un'invadenza, dall'invadenza dello Stato, consegnare questi spazi solo a libero mercato, solo all'arbitro degli interessi particolari, solo alla loggia del liberismo selvaggio, fare cioè del thatcherismo, oppure vuol dire occupare questi spazi liberati con la crescita delle strutture intermedie, con la crescita delle associazioni, con la crescita delle strutture che posson creare una sorta di realtà intermedia, di collegamento tra Stato e istituzioni, da un lato, e popolo e individuo dall'altro lato. Di questo la società italiana ha bisogno! Ma non ha bisogno, vedete, soltanto per un'esigenza ideologica; ha bisogno... perché, quando noi parliamo, quando noi parliamo... di Mezzogiorno... bene, noi, noi dobbiamo riflettere... che cosa vuol dire per il Mezzogiorno una ricetta puramente liberista, perché questa ricetta dà, dà indubbiamente degli affetti dove c'è un tessuto industriale, dove c'è un preesistente tessuto di intrapresa e di volontà di produrre, ma dove questo non c'è per vent'anni, quarant'anni, cento anni di depauperamento delle risorse del Mezzogiorno, dove tutto questo non è un dato di riferimento, non è una realtà concreta, bene, allora, allora parlare solo di liberismo significherebbe veramente sprofondare, a zero, distruggere, far cancellare il Meridione d'Italia, che è quel Meridione che è stata la prima falange, la prima spinta alla vittoria di Alleanza Nazionale.
Allora noi, per il nostro, per il nostro Meridione sappiamo che dobbiamo appoggiare i tentativi, gli sforzi di rivitalizzare un tessuto economico non sulla logica delle cattedrali nel deserto, non sulla logica di chi calava dall'alto, con la mano pubblica, con gli interventi a pioggia per dare aiuto al Mezzogiorno, ma dobbiamo ragionare nei termini di una crescita per la società civile meridionale, di una crescita delle associazioni e strumenti di partecipazione in società civile meridionale che può creano una vasta rete, conflittuale,  alternativa, antagonista alla rete clientelare e mafiosa che ancora esiste nel Mezzogiorno; se noi facciamo crescere questa rete di partecipazione, bene, questo è il contenitore entro cui si può andare a realizzare il vero ed effettivo sviluppo del Mezzogiorno. E poi quando noi parliamo, come dobbiamo parlare, di piccole e medie imprese e sappiamo che da queste piccole e medie imprese è venuto uno dei punti essenziali di quel blocco sociale che ha portato il Polo delle Libertà a vincere; quel blocco sociale che vedeva, da un lato, piccole e medie imprese, ceto medio, strati sociali non garantiti, disoccupati, quelli che non erano protetti dalle burocrazie sindacali, bene, quando noi vediamo questo blocco sociale che... che fa riferimento, che vuol crescere, come lo vogliamo far crescere questo blocco sociale? Lo vogliamo far crescere soltanto con gli strumenti fiscali? O lo vogliamo far crescere responsabilizzando, dando compiti, dando punti di riferimento a quelle realtà associazionistiche che integrano, che fanno forte la piccola e media impresa. La piccola e media impresa può uscire da quel ricatto costante operato dai vertici della Confindustria a cui giustamente il segretario del partito si è riferito nella sua relazione introduttiva, può uscire da questo ricatto se cresce come maglia di partecipazione, se cresce come maglia di elaborazione, se si dota di strumenti di ricerca scientifica, se si dota di strumenti di crescita civile che può far crescere, far sviluppare questo tessuto che rimane la spina dorsale nella struttura economica del nostro Paese.
Ecco le sfide che noi abbiamo di fronte!
Ecco le sfide concrete di una destra sociale a base comunitaria!
Di una destra sociale che comprende che i corpi intermedi sono l'altro versante della partecipazione.
E poi vedete...

[presidente:; "Per favore, Gianni..."]

e poi vedete... non è solo... non è solo problemi di struttura sociale. Voglio leggervi una frase, che suona così:
«Scopo dell'impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituisce un particolare gruppo al servizio dell'intera società».
L'impresa come comunità di uomini. Questa frase, qualcuno potrebbe pensare che è uscita dall'elaborazione dell'istituto di studi corporativi, da qualche nostro autore, da qualche altra realtà. No, cari amici e camerati, questa frase è tratta dalla Centesimus annus di Papa Wojtyla: questo è il messaggio che ci viene dall'entroterra e dalla profonda dottrina sociale della Chiesa, questo è il messaggio che viene dal mondo cattolico.
E allora. allora su questa sfida noi possiamo tentare in Alleanza nazionale una grande operazione di sintesi, che vede, da un lato, un mondo cattolico che si assume fino in fondo la responsabilità di portare la propria dottrina sociale al centro del nostro sviluppo economico, civile e produttivo, dall'altro lato, quella spinta, quella cultura nazionale, quella cultura di destra sociale, quella cultura che viene, non dai riferimenti semplici e semplificati del liberalismo, ma che viene dalla riflessione su quella che è la modernità.
Sulla grande difficoltà, la grande crisi, crisi che nasce nella modernità rispetto ai valori tradizionali, rispetto alla famiglia, rispetta i grandi radicamenti spirituali, rispetto al dato comunitario; su questa crisi, quella crisi aperta con la Rivoluzione francese che non è stata ancora superata, questa crisi deve avere delle risposte.
Anche perché, vedete, se poi noi guardiamo ai piani alti la cultura, vediamo che dentro questi piani alti si parla ormai chiaramente esplicitamente di un'epoca postmoderna che supera i presupposti della modernità, che supera quelle maglie totalizzanti su cui ha la modernità è stata in questi duecento anni costruita.
Non tramontano solo, non tramontano solo le grandi narrazioni totalitarie, le grandi ideologie totalitarie: tramonta anche quell'altra ideologia, concepita in termini come maglia unica, come riferimento unico che è stata l'ideologia del liberismo! Il postmoderno diventa la cultura delle società complesse e nella cultura delle società complesse bisogna recuperare gli spunti che vengono dalle ideologie del passato, ma bisogna essere in grado di ricomporre questa complessità intorno a riferimenti, a principi comunitari.
E allora

[presidente: Gianni, per favore.]

E allora, allora, vedete che è una grande sfida quella che ci si pone.
Ieri Pino Rauti, nel suo intervento, ha detto, ha detto anche lui, ha sottolineato, "attenzione, la liberal democrazia, il liberal capitalismo può andare verso una crisi profonda e può avere bisogno di spunti e di riferimenti che sono dai tipo diverso".
Attenzione a questa frase perché detta da un uomo che parlò della crisi del comunismo 15 anni fa, 20 anni fa, quando c'era l'armata rossa, quando, quando solo parlare di crisi, di fine del comunismo faceva venire il riso alle labbra e faceva parlare di follia, anche purtroppo del nostro partito. Quell'uomo intuì con vent'anni di anticipo questa verità profonda e allora io dico che quando lui oggi dice sottolinea "attenzione, il liberal capitalismo può andare verso una crisi," bene, può darsi che sta dicendo una verità profonda e fra qualche anno si andrà a rivelare reale.
Però, però, però, vedete, se il nostro compito, la nostra missione profonda è raccogliere questa sfida, se la nostra missione, il nostro compito è quello di parlare con tanta realtà, e allora noi ci dobbiamo andare con le gambe spedite, con le spalle leggere.
Se noi abbiamo delle verità profonde che dobbiamo comunicare, se non è un discorso banale quello che noi dobbiamo dire, bene, allora noi dobbiamo andare senza essere zavorrati da voi stessi. Dobbiamo andare negli ambienti sociali, negli ambienti culturali, per essere capiti; dobbiamo parlare alla gente per essere intesi.
Se noi vogliamo andare in quel mondo cattolico che ha questi riferimenti e non trova referente politico, ha questi riferimenti culturali, detti dalla più alta sede del mondo cattolico, bene, se vogliamo fare questo lo vogliamo pare paludati, armati e chiusi da una incomunicabilità che ci deriva dalla nostra storia?
Vogliamo andare zavorrati e chiusi da fatti che possono essere compresi soltanto da noi, compresi soltanto da noi che abbiamo una storia, un passato, dalle radici che conosciamo bene?
Vogliamo andare, ad esempio, a dialogare con le grandi realtà anche crescono, che vanno dentro la sfera nazionale o la sfera internazionale, chiusi dentro questo armamentario occluso dialogico?
Vogliamo dire che soltanto a noi, dopo il crollo del muro di Berlino, in cui tutto si sta trasformando, soltanto noi non vogliamo trasformarci?

Noi abbiamo un grande compito.
Per questo dobbiamo fare uscire dai vecchi siti, dalle vecchie logiche, delle vecchie parole. Per questo dobbiamo farlo lievitare come fatto nuovo. Per questo dobbiamo accettare accettare la sfida della comunicazione.
E oggi questa comunicazione diventa prova e passaggio di legittimazione anche perché, vedete, io, io voglio fare un intervento difficile, non voglio fare intervento comiziale e quindi volendo fare un intervento difficile, voglio fare un'altra cosa difficile,: vedete, oggi è il cinquantesimo anniversario dall'entrata delle truppe americane ad Auschwitz e questo, e questo fatto, è un fatto che noi dobbiamo tenere presente. Lo dobbiamo tenere presente non per metterci nel coro di coloro che dicono, rispetto al passato, frasi banali, ridondanti, però per comprendere un fatto, un fatto, cioè che quel modello totalitario, sul modello di una cultura comunitaria intesa come patto etnico, come fatto biologico, su questo versante, bene, noi, noi abbiamo dei conti da regolare, abbiamo delle demarcazioni nette da ribadire e sottolineare. Lo ha fatto il Movimento Sociale Italiano fin dalla sua nascita, l'abbiamo fatto il nostro percorso storico, ma noi nella nostra acquisizione culturale dobbiamo dire questo: per noi comunità, per noi comunità nazionale è fatto culturale e fatto esclusivamente culturale. Non è! non è radice etnica, non è fatto biologico! e questo lo diciamo, non per cedere al pensiero liberale, ma per essere coerenti coi nostri fondamenti spiritualisti.
Quando si è spiritualisti, quando non si crede nella logica materialista, non si può pensare - perché questa illogica illuminista-, non si può pensare - perché questa è logica biologica e deterministica - che le comunità nascano su fatti biologici, su fatti preesistenti ai fatti culturali!
Questa è un'altra linea di demarcazione che noi dobbiamo seguire e comprendere bene e dare una dare una risposta. La nostra strada stretta, entro cui ci muoviamo, è strada stretta perché è la strada di chi parla di una cultura comunitaria, di una cultura nazionale, di una cultura di grandi riferimenti spirituali, negando contemporaneamente la logica dell'individualismo più o meno di massa e la logica di un comunitarismo organico di massa che andava, che guardava verso il totalitarismo perché pensava che la comunità dovesse nascere dall'alto, dovesse nasce da idee precostituite e non dalle libertà dell'individuo. Invece questa è la sfida, di questa contemporaneità! Questa è la sfida del postmoderno! Questa è la sfida a cui siamo di fronte! Congiunge un profondo, incondizionato riferimento alla libertà dell'individuo e alle libertà dell'uomo con le grandi libertà dei gruppi di uomini, coi grandi diritti, con la grande verità dei diritti dei popoli, con la grande verità della realtà comunitaria che diventa fattore di crescita, fattore di integrazione, fattore di costruzione di valori, di comunicazione di valori!
Quando parliamo della famiglia, noi non parliamo soltanto di un dato affettivo, parliamo di un pilastro reale, non solo per la costruzione sociale, ma per la vita dell'individuo. Quando, quando un bambino nasce fuori dalla famiglia, quando viene messo in un orfanotrofio, comincia a parlare due, tre, quattro anni dopo rispetto a un bambino che nasce in famiglia e questo significa che la famiglia è il luogo dove i valori, dove la comunicazione, dove lo stesso modo di correlare e crescere è il fatto fondante e può essere costruito. E come la famiglia, ci sono tante dimensioni comunitarie che devono essere colte da noi e devono diventare il nostro interlocutore.

Allora, vedete, Alleanza nazionale deve accettare la sfida, deve accettare una sfida di modernizzazione; tra breve arriveranno in Italia fattori profondi, ci sarà inevitabilmente uno sviluppo nella borsa e del mercato, dobbiamo scegliere se questo sviluppo lo subiremo con l'invadenza degli altri o lo sapremo gestire con le regole. Dovremo confrontarci con queste regole del libero mercato e saper costruire su esso altri fatti. Dovremmo dire al nostro popolo che deve acquisire, dopo mezzo secolo, una missione all'interno del nostro contesto geopolitico. Dovremo dire al nostro popolo: "attenzione, che le vecchie colonne d'Ercole di Yalta non esistono più" e questo è un bene, ma può essere un male, perché le colonne d'Ercole di Yalta certo ci limitavano, certo ci comprimevano, ma comunque davano un ordine mondiale. Senza quelle colonne d'Ercole noi possiamo diventare una nave alla deriva, una nave che non ha prospettiva storica, una nave che ha sciolto i propri vincoli e che rischia di andare verso il Terzo mondo. Che, a meno che, noi non riusciamo a darci un grande progetto italiano, un grande progetto di sviluppo nazionale, una grande appropriazione dell'idea nazionale non più e non solo, come fatto sentimentale, perché la nazione non è solo una bandiera che sventola, ma la nazione è modello di sviluppo autocentrato, la nazione è modello di riferimento di civiltà, la nazione è politica estera, è presenza nei propri spazi geopolitici, la nazione è civiltà!
Ricordiamoci che, dopo anni di attacchi, anni di sbandieramento dei pregi della società americana, della società occidentale, il comunismo non è caduto, non è caduto per quei vantaggi e per quei pregi: il comunismo nei Paesi dell'Est è caduto sotto lo sventolare delle bandiere nazionali, il comunismo è caduto sulla riappropriazione dell'identità nazionale da parte dei popoli, quella è stata la vera molla. Poi, magari, adesso oscillano! questi paesi perché non trovano riferimento!, oscillano perché non riescono a fare un salto impossibile fra un'economia statizzata e un'economia puramente liberista, ma quei popoli si sono ribellati all'ombra delle bandiere nazionali, allora noi dobbiamo dire al nostro popolo: "attenzione...

[Presidente: "Gianni, deve finire, per favore!"]

attenzione, attenzione noi dobbiamo costruire questo progetto italiano. Qui, in questo caso, noi abbiamo veramente un'alternativa che è radicale, slittare verso il Terzo mondo, perdere riferimenti

[Presidente: "..."]

oppure adeguarsi, oppure essere in grado di accettare la sfida su tutti i terreni internazionali e nazionali, su tutti i terreni di civiltà a cui siamo chiamati. 

[Presidente: Grazie!...]

Bene, voglio concludere, un attimo, sto concludendo, voglio concludere ricordando una frase di Federico Nietzsche, con cui ho afflitto vari amici in tutto questo peregrinare precongressuale, con cui prima è nato l'esperimento di riferimento alla Città nuova, non come corrente, non come gruppo, questo lo potete capire chiunque, anche se c'è qualcuno che non vuole capirlo, ma come realtà di proposizione, come una proposta culturale, come una proposta di sollecitazione al dibattito. Poi abbiamo visto in questo contesto che attorno a questa proposta ci sono aggregate fatti impensabili. Io mi trovo strettamente vicino in questa fase congressuale con un amico, un nuovo amico, Francesco Storace, che viene dall'opposto del mio orizzonte personale, ma che, devo dire, si è dimostrato un amico e un camerata veramente di livello eccezionale proprio in questi momenti.
Allora, in questo nostro peregrinare io ripeto spesso una frase, che è una frase di Nietzsche che dice «le idee ritornano su zampe di colomba». Cosa vuol dire questa frase? Vuol dire che le idee possono tornare, le grandi idee possono tornare, le grandi idee della civiltà europea possono tornare, ma se tornano su zampe di colomba, cioè in modo lieve, in modo sottile, in modo tale da poter penetrare in tutte le case, in maniera tale da entrare anche in quei moderati che magari non saranno degli eroi, che magari non avranno il gusto dell'élite e delle vette, ma vogliono vivere una vita onesta, basata su principi, vogliono avere punti di riferimento, vogliono avere uno Stato serio come interlocutore. Se noi diamo alle nostre idee zampe di colomba, se noi diamo alle nostre idee capacità di comunicazione, se noi le facciamo entrare in tutte le case come un momento di crescita e di risveglio, se noi facciamo dell'idea nazionale qualcosa che ritorna a essere il pane quotidiano delle famiglie, allora noi avremo fatto una grande missione di civiltà, un grande momento storico che potrà veramente riportare l'Italia al centro e al ruolo che gli spetta!
Vi ringrazio.
[Presidente: Grazie Alemanno, la parola a Scopelliti.]