1984 - intervista al giudice Palermo
È diventato ancora più magro. Probabilmente, la colossale sentenza-ordinanza sul traffico di armi e droga (mai se n'era vista una di 5.980 pagine), depositata in questi giorni, deve essere costata al giudice Carlo Palermo una fatica enorme.
L'ha scritta durante l'estate, probabilmente con il cuore in gola perché contro il magistrato di Trento si sono mossi il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, la procura generale di Roma e la procura di Venezia. E, se non bastasse, anche la Cassazione, che ha usato tutti i cavilli possibili per bloccare Palermo e il suo lavoro.
Lui, sicuramente, non si è fatto amare da nessuno. In quattro anni di indagini ha rotto le uova nel paniere non solo ai trafficanti internazionali di droga, ma anche a quelli di armi (e che armi: cannoni e carri armati, per non parlare di partite di uranio). Ha interrogato uomini politici, agenti dei servizi segreti, collaboratori del controspionaggio. È stato in Jugoslavia, Turchia, Bulgaria.
Se l'avessero lasciato lavorare, sarebbe andato nei prossimi mesi anche negli Stati Uniti, forse perché alcuni suoi imputati risultano legati alla Cia, il servizio segreto americano. Ma lo hanno bloccato appena in tempo.
Palermo però è riuscito a mettere una spina grossa così nel fianco dei politici, inviando una parte della sua indagine alla Commissione parlamentare inquirente. Secondo lui, il Psi ha violato la legge sul finanziamento pubblico dei partiti perché, se son fondati i documenti che ha scoperto, avrebbe intascato tangenti senza inserirle, come vorrebbe la legge, nel bilancio ufficiale del partito.
L'invio dei documenti alla Inquirente risale alla fine di giugno. Sei mesi prima, Palermo aveva messo il naso in alcune società legate al Psi, e Craxi se l'era legata a un dito. Ne era nato un esposto firmato dal presidente del Consiglio: e di lì, per il magistrato, cominciarono i guai. Palermo che cercava le prove, la procura generale di Roma che lo rincorreva con gli interrogatori...
Una specie di gioco del gatto col topo che, per il momento, finisce qui. Palermo ha chiuso la sua indagine e ha chiesto, e ottenuto, di andare a Trapani, a occupare il posto di quel giudice Costa che è stato arrestato perché legato ai mafiosi. Una sfida.
La sfida di un incosciente, di un don Chisciotte? O cos'altro? Abbiamo cercato una risposta parlando con lui, in questa intervista esclusiva per l'Europeo.
Leggo sull'«Adige» una lettera di un cittadino. Scrive: «Grazie, giudice Palermo, grazie per il coraggio che ha avuto». Ha ricevuto tante lettere così?
«Se vuol dire se in questi quattro anni di lavoro mi sono trovato solo, le rispondo subito di no. Perché molte persone, di Trento e non di Trento, mi hanno manifestato solidarietà. Si sono fatti vivi persino drogati ed ex drogati, persone che ho rinviato a giudizio, i quali mi ringraziavano per aver messo il coltello in questa piaga del traffico di stupefacenti».
Dottor Palermo, due anni fa le avevo chiesto: «Lei pensa di poter superare tutti gli ostacoli, di andare fino in fondo, insomma, di farcela?». E lei mi aveva risposto: «Me lo auguro». Oggi può dire di avercela fatta?
«In parte, sì». Sta un po' in silenzio, e poi: «Sì, sì. Se non altro sono riuscito a scrivere l'ordinanza di rinvio a giudizio».
Però la Cassazione le ha sottratto l'inchiesta principale, quella che riguardava il versante politico: le mediazioni ai partiti, i collegamenti... Insomma, le tangenti.
«Sì, sì. Però quegli atti li ho inviati alla Commissione parlamentare inquirente».
Insomma, mi par di capire che, nonostante i siluri che le hanno tirato, lei è contento del suo lavoro.
«Ho lavorato sodo, senza risparmiarmi. Però non mi va adesso di dire: "Ho fatto un buon lavoro". Diciamo che la mia inchiesta è il risultato di un lavoro molto approfondito. Approfondito non solo da me, ma anche dagli organi di polizia giudiziaria».
Lei è stato attaccato da molti personaggi. Però almeno uno, mi pare, le ha dato una mano, Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare sulla loggia P2. Ricordo una frase della Anselmi: «L'inchiesta di Trento va seguita attentamente. Il materiale che il magistrato ha fatto pervenire alla Commissione per la parte relativa alla P2 è molto interessante e trova riscontri obiettivi». È come un 30 e lode. Ha avuto un buon rapporto con l'Anselmi?
«Sono andato da lei, a Roma, più volte. È stata lei a chiedermi gli atti della mia istruttoria quando sono emersi i collegamenti tra il traffico di armi e droga e la loggia P2. Io ho accettato di buon grado».
Palermo non vuole dire di più. Quando sente parlar di politici, scantona. Par di capire che ha una gran paura di essere coinvolto nel discorso, chissà, frainteso: e lui, che visto da vicino è anche simpatico, si raggela. Non rimane che porgli una domanda completamente diversa. Mi parli di lei. Chi è questo giudice Palermo, che ha attaccato il presidente del Consiglio?
«Una persona normalissima. Sono nato ad Avellino 37 anni fa. Mio padre, giudice di Cassazione, è andato in pensione quando io sono entrato in magistratura. Ma, prima di fare il magistrato, ho lavorato a Vicenza, per due anni, dal '74 al '76, alla sede della Banca d'Italia».
E quei due anni le saranno serviti, immagino.
«Moltissimo. Se sono riuscito a mettere a fuoco alcuni sofisticati meccanismi bancari cui ricorrono i mercanti di droga e di armi, è proprio grazie a quel lavoro in banca. Lavoro che poi lasciai perché, alla fin fine, era arido».
Mentre il lavoro del giudice è più interessante, anche se spesso il giudice, deve vivere, come lei, in cattività, sotto la protezione della scorta, chiuso o in casa o in ufficio. Quanto le pesa vivere così?
«E una scelta di vita, maturata pian plano. E perciò, alla fine, non si pone più nemmeno come una scelta. Diventa un comportamento naturale. Non per questo sono un volontario».
Lei, nel corso delle indagini, ha interrogato, come testimoni, uomini politici importanti. Per esempio, Andreotti, Piccoli e poi Loris Fortuna. Andreotti, se non sbaglio, perché emerse dai documenti, che custodiva un ex ufficiale dei servizi segreti, che c'era stato uno strano viavai di dossier al quale non era disinteressato l'attuale ministro degli Esteri. Piccoli e Fortuna, invece," perché erano stati un po', come si può dire, i «padrini» di un raggio laser, o raggio della morte, che aveva progettato un suo imputato. Le chiedo: i politici l'hanno aiutata?
«Non bisogna confondere quelli che sono stati interrogatori di testimoni e quelli che possono essere aiuti nelle indagini. Per quanto riguarda i testimoni, si tratta di atti istruttori di cui parlo nella mia sentenza-ordinanza. Gli aiuti?, lei dice. Beh, quelli sono venuti dagli organi di polizia».
Quei giorni a Sofia
Ma le hanno dato una mano in alto loco, sì o no?
«Credo che non si possa pretendere che la magistratura venga aiutata. Il magistrato fa parte del potere giudiziario. L'uomo politico, di un altro potere. Quindi non è necessario, non è previsto nessun aiuto o una corrispondenza d'intenti. Voglio però ricordare che alcune iniziative assunte nella lotta al mercato degli stupefacenti sono seguite alle mie indagini. Per esempio, dopo che io, per primo, ho messo in rilievo il colossale traffico di droga tra la Turchia e l'Italia, sono nati accordi, a livello di Interpol, tra i due paesi. Un po' come sta avvenendo ora con gli Stati Uniti».
Lei ha viaggiato molto in questi quattro anni. Prima Jugoslavia, poi Turchia e Bulgaria. E, se non sbaglio, aveva in calendario, prima di chiudere improvvisamente l'indagine, altri viaggi. È stata un'esperienza interessante?
«Arrivai a Belgrado perché là era stato arrestato Mehemend Ali Karakafa, uno strano cognome che vuol dire "Caffè nero". Aveva con sé 14 chili di eroina che stava trasportando dalla Turchia all'Italia. Io l'avevo già colpito con un mandato di cattura. A Belgrado mi aprirono tutte le porte. Come in Turchia. Ci fu un'enorme collaborazione con la polizia locale, nonostante che io avessi scoperto che i più grossi trafficanti di droga erano annidati all'interno stesso della polizia turca».
E in Bulgaria?
«Là fu un'esperienza più burrascosa, almeno sulle prime. Perché andai a Sofia proprio nel bel mezzo dello scandalo Scricciolo (il sindacalista accusato di aver favorito i rapporti tra le Brigate rosse e i servizi segreti bulgari, ndr] e quello di Farsetti. Anzi, proprio in quei giorni Paolo Farsetti veniva processato con la Trevisin per spionaggio. Rimasi in Bulgaria 15 giorni. Tornai con un buon raccolto: più di 40 ore dì interrogatorio video-registrato e una collaborazione impensabile».
Ma i bulgari, secondo lei, sapevano o no che personaggi come Bekir Celenk, di casa a Sofia, erano tra i più importanti trafficanti di droga?
«È difficile rispondere. I bulgari conoscevano sicuramente le numerose attività di Celenk, legato a società bulgare. Quanto poi alla consapevolezza da parte delle autorità bulgare dei traffici illeciti di Celenk, beh, è tutto da provare».
Insomma, neanche loro conoscevano il doppio traffico armi-droga? Ci racconti, se può, come avviene esattamente questo traffico.
«In poche parole: accanto a un mercato ufficiale delle armi ce n'è uno parallelo e illecito, manovrato da privati. I trafficanti intervengono ogni volta che uno Stato produttore di armi non vuole essere ufficialmente indicato come fornitore di un altro Stato, specialmente se è in guerra. Ecco così che si inseriscono i privati. Fungono da intermediari e operano in stretto collegamento con i servizi di sicurezza».
Fra i documenti della sua indagine so che c'è un memoriale di un ex agente dei servizi che spiega come siano state ufficialmente vendute, grazie alla protezione non solo del controspionaggio, armi alla Bulgaria. Quando si sa, che la Bulgaria, paese dell'Est, non può usarle.
«Ma questo è un episodio palese. Ufficiale. In casi del genere ci sono tutte le autorizzazioni ministeriali».
Dunque, sotto sotto, c'è complicità del potere politico?
«Non mi sento di affermarlo categoricamente. Mi limito a dire che ci sono molti modi per esportare le armi. Un modo curioso, per esempio, può essere questo: si sa che non possiamo vendere armi al Sud Africa. Allora cosa succede? Visto che la Francia vende navi a quel paese, sulle navi vengono montati cannoni costruiti in Italia. Lo sanno tutti, perché quei cannoni vengono appositamente costruiti per quelle navi. E si sa che quelle navi arrivano in Sud Africa. E tutto ciò avviene con tanto di autorizzazione».
Forse perché sul traffico di armi volano tangenti da capogiro?
«Non solo. Le industrie che producono armi hanno interesse a vendere e questo interesse coincide spesso con gli interessi del paese, siano gli Stati Uniti o l'Italia, la Gran Bretagna o la Francia. Sulle tangenti poi... Le tangenti vengono chiamate ufficialmente "compensi di intermediazione". Vi è un apposito comitato interministeriale che autorizza la corresponsione di questi compensi. Parlo, ovviamente, del traffico ufficiale. Il più pulito. Parallelamente c'è l'altro».
Una volta le avevo chiesto se i servizi segreti le avevano intralciato il lavoro. E lei: «Non le posso rispondere». Adesso che l'istruttoria è conclusa mi può rispondere?
«Le posso rispondere così: l'ex capo dei servizi segreti, il generale Giuseppe Santovito, è stato oggetto di indagine e nei suoi confronti c'è stata una pronuncia di non doversi procedere per morte del reo. Ho rinviato a giudizio due funzionari del Sismi [il servizio segreto militare, ndr], e quasi tutti gli imputati sono collegati al controspionaggio per loro ammissione».
Lei ha scoperto traffici non solo di armi semplici, ma anche di carri armati, di cannoni. Persino di uranio. Cosa prova un giudice di fronte a traffici così imponenti e pericolosi?
«Quando scoprii documenti relativi al traffico di carri armati rimasi allibito. Quando poi ho scoperto traffici di armi così pericolose, beh, sono rimasto scioccato».
Non ha mai avuto paura?
«Paura? No, non direi. Piuttosto mi si sono aperti gli occhi, ho capito. E questo è stato terrificante. Noi sappiamo che ci sono guerre in Libano, e in tanti altri paesi, ma in genere siamo indifferenti. Sono guerre che non ci riguardano da vicino. Però, nel momento in cui ci si accorge che qui in Italia ci sono persone che per solo spirito di lucro si inseriscono in quei conflitti e vendono armi... Sì, sono rimasto molto impressionato».
«Meglio non rispondere»
Nessuno si è fatto vivo dicendole: giudice, vada cauto, ci stia attento!
«Credo di essere stato sempre scostante».
Lei ha parlato di guerre. Veniamo a quella delle Falkland. Da quella guerra sono nati, se non sbaglio, i suoi guai più grossi. Aveva scoperto che gli argentini, per battere la flotta inglese, avevano tentato di comperare i missili Exocet. E su quei missili gravavano tangenti grandi così che dovevano finire in tasca a qualche grosso papavero, anche italiano. Appena lei cominciò le indagini su quel traffico di Exocet, le arrivarono alcune incriminazioni.
«Preferisco non rispondere».
Beh, allora ricordo io che lei è stato inquisito dal Consiglio superiore della magistratura, dalla procura generale di Roma, dalla procura di Venezia. Ha subito ben cinque interrogatori.
«Io ne ho fatti molti di più».
E tutto questo perché ha tirato in ballo il presidente del Consiglio, Bettino Craxi?
«È bene che non parli delle mie vicende processuali. Sono ancora sotto giudizio».
Allora io gli ricordo ciò che lui stesso ha scritto in una memoria difensiva presentata alla procura della Repubblica di Venezia che lo ha inquisito per interesse privato in atti d'ufficio. Una storia poco chiara legata all'arresto, contestato, di due avvocati. Gli leggo parola per parola: «Non appare fuori luogo notare che le più pesanti accuse nei miei confronti da parte di imputati, avvocati e politici, sono seguite al sequestro dei documenti, operato il 16 giugno 1983, in cui compariva per la prima volta il nome dell'onorevole Craxi in relazione a un illecito traffico di armi e sono proseguite, con ulteriore e maggiore spinta propulsiva, dando luogo a inizio di procedimento disciplinare e penale, allorquando, il 10 dicembre 1983 sequestrai la documentazione ora da me trasmessa all'inquirente».
Palermo ascolta con attenzione, ma non vuole parlare di questo tasto dolente. Allora gli chiedo: come mai aveva chiesto, spontaneamente, di astenersi dall'inchiesta, non una, ma due volte? Non aveva scritto al presidente del tribunale: «Me ne vado perché tutti mi accusano»?
«Sì, per due volte. Ma per due volte il presidente del tribunale ha respinto la mia richiesta. Per questo sono rimasto a lavorare. Ho poi inviato gli atti alla Commissione parlamentare inquirente perché ho ravvisato un illecito [è il finanziamento pubblico dei partiti, ndr] perseguibile non dalla magistratura ordinaria».
So che lei non vuole ricordare, per timidezza o ritrosia, le parole usate dal presidente del tribunale per respingere le sue dimissioni ma sono così significative che gliele ricordo io: «Ci sono state velenose e virulente reazioni determinate dai sudici, sotterranei e colossali interessi colpiti». E ancora: «Si sono registrate pressioni demolitorie della sua [di Palermo, ndr] personalità che si sono fatte più ardite per la possibilità di mimetizzare gli inconfessabili scopi da cui sono mosse». Mi pare che abbia avuto molta solidarietà dai colleghi.
«Sì, e sa benissimo cosa ha fruttato questa solidarietà: la remissione di un mio processo prima a Brescia, poi a Venezia. La Cassazione ha giudicato i magistrati di Trento, perché mi sono stati solidali, incapaci "di assicurare la retta amministrazione della giustizia"».
Torniamo alle sue indagini. C'è sempre un «momento più difficile». Qual è stato il suo?
«A metà dicembre dell'anno scorso. E poi tutti i mesi successivi».
Palermo non vuole spiegare di più. Ma è evidente che sta pensando a quel 15 dicembre 1983: lui era alla Farnesina a interrogare Andreotti, la Finanza stava perquisendo l'ufficio di Ferdinando Mach di Palmstein, un giovane finanziere legato al Psi. E Bettino Craxi, su carta intestata della presidenza del Consiglio, inviava un esposto alla procura generale di Roma contro di lui, Palermo, «reo» di aver indicato il capo del governo e suo cognato Paolo Pillitteri nella motivazione di un mandato di perquisizione. Cosa prova un giudice quando viene attaccato dal presidente del Consiglio?
«Stupore, tanto stupore».
«Ma fu sì o no una svista scrivere quei due nomi, quello di Craxi e quello di Pillitteri, nel mandato di perquisizione?
«Parlare di svista è assurdo. Quando si consegna un mandato di perquisizione a un organo di polizia, è necessario che all'organo di polizia si indichino le cose che debbono essere cercate. Il nome di quei personaggi era stato indicato proprio per questo».
Dunque lei cercava documentazione nei loro confronti. Sei mesi prima, a metà giugno dell'83, aveva trovato una lettera spedita dall'Argentina a un commerciante di giubbotti antiproiettile dalla quale risultava che, per un affare che stava per sfumare, «Craxi era furibondo». La procura di Trento voleva interrogare il presidente del Consiglio. Lei preferì approfondire le indagini in Argentina. Come è stato quel viaggio?
«Fruttuoso. Tanta collaborazione. Solo qualche difficoltà quando gli argomenti riguardavano la loggia P2. Ma eravamo ai primi di dicembre dell'anno scorso, quando il governo militare era appena stato sostituito. Rientrato a Trento dall'Argentina, scoprii che la scorta mi era stata dimezzata».
In che senso?
«La questura non mi mandò più la volante. Rimase soltanto l'auto della Guardia di finanza».
Insomma, tanti guai dopo l'Argentina. E a Trapani, dove andrà fra un mese, non pensa di trovare guai peggiori? Perché una sede così difficile?».
«La coerenza con me stesso. Ho sempre cercato di non farmi pilotare, deviare, condizionare. E poiché ho svolto un determinato lavoro ed è mio desiderio proseguirlo, ho scelto la sede di Trapani apposta».
Non teme di farsi troppi nemici?
«Credo di averne già abbastanza». ❑