ROTTA FUTURA

Occidentale 229 - 230 - LA GRANDE TRUFFA - i mostri non ci fanno paura

 

RIVISTA MENSILE D'INFORMAZIONE POLITICO-CULTURALE
ANNO XXIV
Novembre-Dicembre 1993 n. 229-230
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LA GRANDE TRUFFA

LA GRANDE TRUFFA
introduzione
premessa
La violenza fascista
Il sistema dittatoriale
L'aggressione nazifascista
Democrazia è bello
La libertà conculcata
Razzismo
Corporativismo
Totalitarismo
Guerra e pace
Colonialismo
Testo del santo catechismo Liberatorio
 
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PERCHE' "OCCIDENTALE" NON SI PUO' VENDERE NELLE
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CI AUGURIAMO CHE QUALCUNO, NEL TROVARLO
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ALTRA FORMA DI FINANZIAMENTO CHE IL CONTRIBUTO
DEGLI ABBONATI, O CI FACCIA A SUA VOLTA UN OMAGGIO
"MONETARIO", CHE SAREBBE MOLTO APPREZZATO.
ABBIAMO SCELTO QUESTO NUMERO PER FARCI
CONOSCERE, PERCHE' CON UN LINGUAGGIO SEMPLICE E
CONVINCENTE, MA ANCHE "ARRABBIATO", VI SI TRATTANO I
TABU' DEL TEMPO MODERNO, CON AFFERMAZIONI CHE
SCANDALIZZEREBBERO I BENPENSANTI.
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SINCERA OBIEZIONE, CI FAREBBE COSA GRATA SE CI
REPLICASSE MA ANCHE SE CI INSULTASSE. SIAMO
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LA GRANDE TRUFFA
"La grande truffa" è una raccolta dei dieci articoli di Rutilio Sermonti sulla "truffa" che viene perpetrata ai danni degli Italiani (e del mondo) con la deformazione strumentale della realtà ai fini della conquista o del mantenimento del potere. Gli articoli sono comparsi negli ultimi numeri dell'«Occidentale» e li ripubblichiamo tutti insieme per il consenso che hanno ottenuto presso i nostri lettori e perchè la battaglia contro le falsificazioni storiche ed ideologiche è uno dei primi nostri obiettivi.
Il principio che "è vero quello che serve" lo tirò fuori Brecht, con destinatario del servizio il proletariato, ma cento volte s'è ripetuto nella storia. Solo che l'esplosione dei "media" lo ha portato oggi ad un livello scandaloso.
"La grande truffa" è la storia dei "miti moderni". Miti che, per le loro caratteristiche di irripetibilità e di a-storicità, possono essere solo celebrati e non discussi. Qui Rutilio Sermonti tratta i più importanti e non certo tutti, perché questi si snocciolano in un rosario interminabile.
Tutti i miti esaminati e quelli che sono rimasti indietro, sono riconducibili ad un unico quadro mitologico che è quello del «Paradiso perduto per colpa non propria». C'era una condizione ideale, "paradisiaca" di pace, di libertà, di democrazia, di assenza di razze e sono arrivati i "mostri" (il fascismo, la dittatura, l'aggressione nazista), che, senza nostra colpa, ci hanno fatto perdere tutto. Il mito ha un effetto intellettualmente paralizzante perché estranea dal giudizio, costruendo realtà irripetibili, fuori della storia, da commemorare, non da discutere. Il suo successo è legato al fatto di mettere le coscienze a posto e, cioè, al generale consenso. Chi difende un fatto riconducibile al fascismo, non sbaglia, "bestemmia". Qualsiasi realtà avversa (dal capitalismo al comunismo), basta chiamarla "fascismo" per collocare i portatori nell'eresia. Adesso occorrerà coniare un nuovo mito per mettere le coscienze a posto di fronte alla rovina materiale e morale che un metodo siffatto ci ha lasciato. Ma anche molti "fascisti" vivono un proprio mito (vedi V. Vergaro su questa rivista) , che «...nasce quando le singole realtà... che si sono presentate alla storia come realtà fasciste, divengono, come insieme, una specie di paradiso terrestre, ... finché arrivò il mostro e cioè il tradimento (il badoglianesimo) e tutto fu perduto per sempre. Di contro c'è il valore della fedeltà, fedeltà "sacra" che, per essere tale, deve essere anche metastorica, impraticabile, irrazionale. E il mondo si divide in fedeli e infedeli»... Rutilio Sermonti smantella, in questi articoli, un mito nefasto ma sta attento a non rifugiarsi in un altro, anche se, indubbiamente, molto minore. Ci dà, così, una preziosa lezione.
(occidentale)
 
LA GRANDE TRUFFA
di Rutilio Sermonti
Raccolta, in una premessa e dieci capitoli, delle più importanti falsità consacrate nel dopoguerra, nel disprezzo della verità e del buonsenso, per mettere a posto le coscenze dei sudditi e consolidare le poltrone dei nuovi prìncipi.


PREMESSA SUL
SANTO
CATECHISMO
LIBERATORIO
(vedi appendice, pag. 56)
e relative istruzioni per l'uso

C'è un'operazione a carattere preliminare e urgente, alla quale noi, in qualità di ceppo resistente in questo nostro attossicato Paese, dobbiamo alacremente dedicarci per sgombrare la strada dai chiodi a tre punte culturali profusamente sparsivi dal nemico. Vi è stata infatti nel secondo dopo-guerra una trahison des clercs assai più clamorosa e grossolana di quella di settecentesca memoria. Anche i cervelloni e le grandi penne, si sa, tengono famiglia, e quindi, dai giorni in cui il fuoruscitume italico scollò il sedere dalle sedie dei caffè parigini o dalle panche delle anticamere moscovite per incollarlo ai sedili delle Jeeps dei barbari invasori e sfilare con essi, coronato di lauro e circonfuso di martirio, sotto l'arco di Tito, essi cervelloni, presenti tra il pubblico, drizzarono le orecchie. Si apparecchiava un colossale banchetto che non è di tutti i giorni: un'intera nazione da mangiare, ed essi si domandarono naturalmente che cosa occorresse per essere invitati. Ebbene: costatarono che c'era una sola condizione: la seriosa milizia antifascista.
Non era milizia scomoda né pericolosa, dato che l'opposta milizia fascista era stata testé eliminata manu militari, e quindi i prodi si dissero: —Se non è che questo, scurdammece o passato e diamoci sotto, che nostro è l'avvenir!
Ebbe così origine l'eletta schiera del l'ingegno che, penna in una mano e (pagina 4) forchetta nell'altra, si snodò e si riprodusse per quasi mezzo secolo: la schiera di quelli che ancor oggi nun ce vonno stà (dicono a Roma) all'idea che la bazza volga al termine. Il sistema, siamo giusti, non è infatti per niente esigente né tirannico con le aristocrazie del pensiero disponibili. Non pretende da loro né un vero impegno né una disciplina, in cambio della magica chiave del successo. Possono sbizzarrirsi a piacimento dalla narrativa al giornalismo, dalla saggistica al teatro e affini, dall'insegnamento universitario ai fumetti; possono sostenere qualsiasi tesi e galleggiare su qualsiasi corrente, purché...
Purché diano per scontato il contenuto di un minuscolo catechismo, così piccolo che non occorre neanche scriverlo: si tramanda a memoria. È il Santo Catechismo Liberatorio. Attenzione: diano per scontato. È questa la sottile astuzia del nemico nostro e dell'Italia. Dare per scontata qualcosa, tutti unanimi e per decenni, è infatti molto più efficace per convincerne il volgo che non sostenerla, provarla, dimostrarla. Si sostiene qualcosa per vincere gli elementi in contrario; si prova qualcosa che abbisogna di prove; si dimostra qualcosa che non è ancora dimostrata. Sono tutte azioni che implicano un ché di opinabile, che possono addirittura stimolare lo spirito di contraddizione che è parte della natura umana. Il dare per scontato, invece, a scuola e nei giornali, nei romanzi «storici» e alla TV, nelle barzellette e nelle lapidi, sempre e dovunque, non suscita la critica e penetra nelle coscienze coll'universale grimaldello dell'abitudine mentale.
Oltre tutto, dimostrare e sostenere fregnacce, è assai faticoso, darle per scontate è comodissimo. Basta, chessò, in un romanzo di 500 pagine, lasciar cadere qua e là, con nonchalance, una mezza dozzina di aggettivi e un paio di sottintesi e il gioco è fatto. Basta l'uso pedissequo di alcuni attributi spregiativi ogni volta che si usano i sostantivi che il Catechismo aborre. Negli spettacoli visivi, basta addirittura un ammiccamento, un sorriso complice, una sottolineatura ironica, per raggiungere l'effetto e ottenere imprimatur e sovvenzioni da chi può.
Insomma, come si faccia a dare per scontato, coi tanti virtuosi del ramo che ci sono in giro, lo sappiamo tutti. Un paio di esempi ad abundantiam: Se uno scrive, ad esempio, che Arafat vorrebbe risolvere il problema medio-orientale facendo passare gli Ebrei per il camino, ci sarà qualcuno che prenderà le parti di Arafat difendendolo dall'accusa, ma a nessuno verrà in mente di domandarsi se esista il precedente di qualcuno che per il camino li abbia fatti veramente passare (come da Catechismo). Se uno scrive, in danno di un altro che fa il prepotente, che quello usa sistemi fascisti, gli amici del prepotente lo difenderanno sostenendo la legittimità del suo operato, ma che il Fascismo fosse prepotente (Catechismo) resterà comunque acquisito.
E così via, vero, Grandi Penne? (pagina 5)
Ma andiamo avanti nel discorso e domandiamoci: questo Catechismo Liberatorio chi lo ha composto? Come è saltato fuori, già completo e perentorio, nel 1945?
È semplice: c'era già.
Le limpide fonti erano due: la propaganda bellica di Radio Londra (e consimili emittenti degli altri paesi alleati), e i libelli redatti nel ventennio all'estero dai fuorusciti antifascisti italiani coi soldi dei nemici dell'Italia. Orbene: non occorre grande perspicacia per considerare che qualsiasi propaganda bellica non si propone lo scopo di essere obbiettiva, ma solo quello di screditare il nemico e di suscitare indignazione contro di lui. Qualche volta trova un limite in un minimo di pudore e onestà, oppure nella verosimiglianza (e cioè nella convinzione - rivelatasi erronea - che sparare balle inverosimili sia controproducente). Così era per la propaganda bellica italiana, certamente unilaterale ma con juicio. Ma più spesso non si pone limiti di sorta. Ricordiamo l'altra guerra mondiale, in cui la propaganda britannica tirò fuori la trovata delle famose manine dei bambini belgi mozzate dai Tedeschi. La trovata ebbe, all'epoca, grande successo, ma a guerra finita fu lo stesso premier inglese a dare atto alla Germania che si era trattato di un falso con intenti propagandistici (bella faccia tosta di gentleman). Nell'ultimo conflitto, ci fu la differenza (effetto forse del progresso) che i vincitori non si ritennero in dovere di rimangiarsi nulla. Non solo, ma, ad avversario annientato, divisarono di rincarare a volontà la dose con intenti profilattici (i campi di sterminio fiorirono, ricordiamolo, a guerra finita), e - non paghi neanche di ciò - spinsero la loro sfacciataggine fino a celebrare i noti processi farsa a senso unico, per consacrare in atti pseudo-giudiziari le loro infamanti trovate. E veniamo all'altra fonte. Anche per essa, solo un autentico imbecille o forse un marziano potrebbe pensare che gli esponenti di una classe dirigente fallita; travolta e sbattuta fuori da una nazione, rifugiati tra le braccia ospitali delle nazioni nemiche di essa, possano essere attendibili e obbiettivi nei loro apprezzamenti e nella loro versione dei fatti che hanno portato al loro licenziamento.
Eppure, gli intellettuali di professione a caccia di successo, pur non essendo imbecilli né marziani, hanno accettato senza batter ciglio un catechismo ricalcato esattamente e meticolosamente su quella propaganda bellica (e postbellica) e su quei libelli, quasi fossero le tavole di Mosè. Tanto da darlo per scontato, da fingere che il dibattito fosse con essi chiuso. Come italiani, ci vergogniamo per loro.
Ma c'è qualcosa che ancor più ci rattrista.
C'è che, persino in quello che qualcuno chiama il nostro ambiente umano, si riscontrano non di rado tabù e pudori che solo nel Catechismo Liberatorio hanno la loro origine. Quasi ci fosse in esso qualcosa, anche una sola riga, di valido e accettabile o addirittura di rispettabile.
Ehi, dico, camerati, vi siete rimbambiti? Le fonti, gli autori, gli intenti e il (pagina 6) contenuto di quel catechismo vi lasciano forse persistere qualche dubbio che si tratta, dall'a alla zeta, di una raccolta di immondizie, classificabili, tutt'al più in a) falsi, b) balordaggini?
Non posso attribuire certi fadings, soprattutto nei giovani, che a disinformazione o a scarsa riflessione, e perciò mi sono ripromesso, in una serie di articoli cominciante con questo, su OCCIDENTALE, intitolata appunto La grande truffa, di provare a scriverle io, le proposizioni di quel catechismo, desumendole senza troppa fatica dal gergo degli statisti di questa democrazia (non so perché li chiamino cosi, dato che sono del tutto refrattari al concetto di Stato) e dai parti delle Grandi Penne al suo servizio, e poi prendendole in esame una alla volta, alla luce dei fatti e della logica.
Alle eventuali obiezioni - alle quali le pagine di questa rivista sono aperte -risponderò con dati e argomenti. Agli eventuali insulti con sganassoni. Alle eventuali denunzie col nostro vecchio motto: me ne frego! 

 

VIOLENZA
FASCISTA

 

 
Il linciaggio del Brigadiere Giuseppe Ugolini;
ovvero: gli antesignani della non-violenza

Robespierre che taglia la testa al boia dopo
aver decapitato l'ultimo cittadino
(da una stampa dell'ottocento)

1° CHE COSE IL FASCISMO? IL FASCISMO E' VIOLENZA.
Corollari: La violenza è fascismo. Il fascismo è andato al potere e ci si è conservato soltanto con la violenza. Qualsiasi violenza contro fascisti, passata, presente o futura, si presume «iuris et de iure» legittima difesa.
Ci fu. ai primi del secolo, una macchietta creata dal Ferravilla: il sciùr Pànera. Costui, trovatosi a disputare un duello alla spada, si rivolgeva scocciato al rivale: «Ma se ti muovi in quel modo, come faccio a colpirti?». Non diversa, anche se priva di intenti umoristici, è la logica su cui si fonda l'assioma numero uno di cui sopra.
Prima di dimostrarlo, si impone però una premessa: i lacrimatori sulla violenza fascista provengono da due matrici «laiche»: quella liberale e quella socialista-marxista. Ora, se non mi falla la memoria storica, sia il (pagina 7) liberalismo che il socialismo si impadronirono del potere con altrettante rivoluzioni, quella del 1789 e quella del 1917. Dico bene? È un dato storico incontroverso che la rivoluzione del 1789 (e anni seguenti) sia stata un raccapricciante bagno di sangue, che inorridì l'Europa intera. Oltre alla simpatica prassi di tagliare la testa a macchina ad aristocratici e controrivoluzionari di ambo i sessi e anche a rivoluzionari non graditi al demagogo di turno, ricordiamo le plebi schiamazzanti, le picche graziosamente sormontata da capi mozzati, le ferocissime stragi di contadini vandeani con interi paesi dati alle fiamme con gli abitanti, e così via dicendo.
Ebbene, siffatte nefandezze - a definire le quali violenze si userebbe un benigno eufemismo -, diventano addirttura veniali bazzecole se confrontate a quelle dell'altra rivoluzione: quella, per intendersi, che trasformò in socialismo reale quello teorico dei suoi ipertricotici e borghesi inventori. Gente dalla mano non certo leggera come Attila, Gengis Kahn o Tamerlano fanno la figura di goffi dilettanti se raffrontati all'Ulianov detto Lenin e al Dzugasvili detto Stalin, ai cui ordini, per una ininterrotta serie di decenni, molti milioni di loro compatrioti «nemici del popolo» (ma quelli non erano popolo?) furono cinicamente eliminati o sotto¬posti a inumane sofferenze.
Come vedete, su paciocconi come Negrin, Bela Kun, Mao, Ho-Chi-Minh e affini, sorvolo. Con tale necessaria premessa sui precedenti storici e politici dei piagnucolatori sulla violenza fascista, veniamo a discorrere di quest'ultima, cominciando con l'inquadrarla nel panorama nazionale del tempo.
Negli anni tra la metà del 1919 e quella del 1921, l'Italia intera sperimentò il famoso bienno rosso. (pagina 8)
Su di esso i liberi intelletti di successo hanno ordine di glisser e loro naturalmente vi si attengono, sbrigandosela, tutt'al più, con un benevolo accenno alle lotte proletarie. Invece, se si vuol chiarirsi le idee, di glisser non è il caso affatto. La realtà è che, soprattutto dopo la vittoria dei socialisti e «popolari» (i democristiani dell'epoca) nelle elezioni dell'autunno 1919, si scatenò in tutta Italia la teppaglia aizzata dagli apostoli socialisti ansiosi di emulare i Bolscevichi, ai quali si affiancarono gli agitatori bianchi sguinzagliati dal «popolare» on. Miglioli. Nelle città e nelle campa¬gne dilagò un crescendo della violenza più becera e sfrontata, contro la quale del tutto impotente fu la caricatura di Stato democratico (del tutto simile all'attuale, con la sola differenza che l'attuale è molto più ladro).
Le bandiere nazionali venivano calpestate e bruciate in piazza, gli ufficiali in divisa aggrediti, bastonati, sputacchiati, anche se mutilati dimessi dall'ospedale (Torino -11 ottobre 1920). Narra a Benedetto Croce l'antifascista Operti: «Inermi e mancanti chi del braccio, chi della gamba, eravamo nell'impossibilità di opporre qualsiasi reazione: ci strapparono le medaglie; le calpestarono. Non fecero di più, soddisfatti del gesto o spenta l'ira dalla nostra passività...». Fatti del genere erano all'ordine del giorno, in quel biennio, ma in molti altri casi fecero anche di più, molto di più.
Spulciamo il florilegio: a Molinella, due o tremila braccianti rossi in sciopero circondarono tre guardiani non iscritti alle «Leghe», rei di lavorare, e ne fecero letteralmente scempio. Ad uno di loro - per dare un'idea - si aprì il ventre, si strapparono gli intestini in presenza della moglie urlante, dopodiché lei fu presa per i capelli e costretta a tuffare il viso nelle viscere fumanti del marito. Il tenente Lepri, sorpreso isolato dalla turba socialista tumultuante, per aver gridato «Viva l'Italia» anziché «Viva Lenin», fu massacrato a bastonate e coltellate e finito con un revolverata in testa. A Modena, un giovane non ancora ventenne, il Ruini, fu dai socialisti ferocemente linciato, e i prodi, non ancora soddisfatti, due giorni dopo, spararono e gettarono bombe sul suo corteo funebre, uccidendo altre due pesone e ferendone una decina. Ci scusi il lettore per i macabri particolari e apprezzi che ci fermiamo qui, paghi di aver reso l'atmosfera, anziché continuare per molte pagine, come potremmo. Ci si permetta solo un dato inoppugnabile quanto significativo. Tra il 1920 e il 1921 socialisti e anarchici, promiscuamente associati in tal genere di imprese, ammazzarono ben 27 carabinieri; e - si badi bene - non in conflitto, bensì in vigliacchissime aggressioni, spesso in 50 o 100 contro uno o due. Per la precisione: 14 nel 1920 (Cresta, Bernardi, Ugolini, Antei, Di Bacco, Salvo, Renzi, Giarrocchi, Ferrari, Golino, Dore, Cudabba, Imbriani e Ceramo) e 13 l'anno successivo (Carlino, Petrucci, Ragni, Sgavicchia, Pinna Gavino, (pagina 9) Biancardi, Pinna Giovanni, Masu, Cinus, Rosati, Malvolti, Dinelli e Madorni). Su quelli dal nome in corsivo si infierì in modo orrendo, straziandone anche i cadaveri. Aggiungiamoci gli altri 9 che caddero per le stesse mani e con le stesse modalità negli ultimi mesi del '19 e nei primi del '22 e - anche omettendo per brevi-tà le centinaia di uccisi o feriti milita-ri e civili, le truci e sistematiche pre-potenze dei Capi-lega, i negozi e stabilimenti saccheggiati, le viti tagliate, le estorsioni col terrore, granai incendiati, le vacche sgarrettate e simili facezie, comin-ceremo a farci un'idea di quale sorta di candidi agnellini fossero quei «rossi» cui si applicò -sempre minoritaria e mai proditoria - la de-precata violenza fascista del 1921-22.
Per i bianchi, per i cattolici potrei ripetermi. Mi limito a testualmente riportare il linguaggio del loro capo, il Figlio di Maria on. Guido Mignoli (Discorso di Soresina - 8 febbraio 1921): «Le armi sono pronte: 4.000 fucili, 4.000 bombe, 4.000 pugnali da immergere nel ventre della borghesia agricola. Faremo fare agli agrari la fine di Giuda: li appenderemo coi piedi in su e la testa in giù agli alberi delle nostre terre; squarceremo il loro putrido ventre da cui usciranno le grasse budella turgide di vino. E nelle contorsioni dell'agonia noi danzeremo intorno non la danza della vendetta, ma la danza della più umana giustizia. Quando le viscere immonde saranno putrefatte al sole di Mosè che non si arresta, i corvi compiranno l'opera loro. Ed i fascisti delinquenti scherani lanzichenecchi assoldati all'Agraria seguiranno l'eguale sorte.
E in mezzo ai sudici penderà l'assertore del fascismo italiano, quel sacco di putrido sterco avvelenato». Per essere non-violento, legalitario nonché cristiano, non c'è male.
E la reazione fascista venne. Che il fascismo sia sorto come reazione a siffatti cialtroni e ai loro degni colleghi aspiranti-bolscevichi, nessuno storico che abbia un minimo di pudore lo nega ormai più. Ebbene, come pensate che una minoranza - all'inizio, addirittura esigua - potesse reagire all'immensa marea truculenta e assassina, abbondantemente armata oltreché spalleggiata dalla maggioranza parlamentare? Forse distribuendo santini e caramelle?
Certo: i fascisti manganellarono e, all'occorrenza, spararono. E che, volevano fare la guerra civile da soli, lorsignori? Il guaio di ogni guerra (civile o militare) è che c'è anche il nemico, non lo sapevano? E il nemico fa la guerra anche lui, il cattivone. Ma quello che va detto ad alta voce è che - se socialisti & C., con tutte le loro masse assatanate, ce le presero di santa ragione, tanto da essere ridotti in un paio d'anni alla totale impotenza, ciò NON FU AFFATTO, come s'è visto, perché meno violenti, o meno aggressivi, o meno armati. Ce le presero perché sovente vigliacchi, sempre indisciplinati e pessimamente comandati, e soprattutto perché, col passare dei mesi, un numero sempre crescente di loro gregari si accorse di essere stato preso in giro dai tonanti «apostoli del (pagina 10) proletariato» e saltò la barricata. E fu allora che, sulle labbra dei prefati apostoli, gli accenti orripilanti del tipo di quelli su riportati cedettero ai piagnistei contro la violenza.
Quando, a partire dall'estate 1921, intere Leghe rosse della bassa Padana passarono, bandiere e musica in testa, alle organizzazioni fasciste, a leggere le giustificazioni del fatto (a base di violenza) fornite alla loro stampa dagli apostoli disoccupati, c'è da rotolarsi per terra dal convulso di riso. E ora si dovrebbe far finta di prenderli sul serio (e le Grandi Penne lo fanno)!
Furono anni di guerra civile, e questa non è una scoperta. E che non fossero stati i fascisti a cominciarla lo attesta il fatto che il principio si chiamò biennio rosso e non certo biennio nero. La guerra civile si fa con la propaganda e con la forza (violenza, se si vuole). Propaganda e forza furo¬no impiegate da ambo le parti, e che lo siano state più dai fascisti che dagli altri è solo una ridicola panzana.
Ma non basta: agli squadristi (non certo più che ai loro antagonisti) possono essere attribuite uccisioni (in conflitto) e bastonature. Ma soltanto ai rossi e mai ai fascisti poterono essere addebitati gesti di ferocia e di crudeltà inumana in danno di avversari indifesi caduti nelle loro mani e processati tra la marmaglia urlante in qualche cascinale isolato, come dello strillone del Popolo d'Italia Urbani, di cui fu sentenziata ed eseguita la morte per immersione della testa in un catino d'acqua bollente o dello squadrista Muso, dopo lunga tortura gettato, agonizzante, in una vasca di borace fumante, poi tirato fuori e sbranato in cinque pezzi. E che dire di centinaia di proditori agguati dietro muretti o siepi, con fucili a pallettoni e pistole? Sta di fatto che, pur avendo avuto i fascisti la meglio in quasi tutti i veri scontri, i morti dei vincenti fascisti furono almeno tre volte più numerosi di quelli dei perdenti socialisti e compagni. E' che i primi caddero in massima parte non in conflitti, ma in autentici assassinii, centinaia e per anni, anche dopo l'ascesa di Mussolini al governo.
Il culmine, emblematico nella sua agghiacciante realtà, fu raggiunto a Sarzana il 20 luglio 1921. Circa 500 fascisti, in arrivo in quella roccaforte socialista e anarchica con l'intenzione di issare il tricolore al posto della bandiera rossa sventolante sul municipio, furono affrontati e dispersi NON DAGLI AVVERSARI - si badi - bensì dall'improvviso e nutrito fuoco della truppa e delle Guardie Regie (forti - si deve dire a loro biasimo  - del fatto che gli squadristi avevano tassativo ordine di non usare mai le armi contro uomini in divisa). SOLO ALLORA, le migliaia di loro avversari che avevano berciato, al sicuro, dietro le spalle dei militari, si diedero in folti gruppi a battere i campi in caccia di eventuali dispersi, e riuscirono a individuarne, qua e là, una ventina (le forze dell'ordine non mossero un dito). Risparmio ai lettori la narrazione di quello che l'ignobile marmaglia (donne incluse) fu capace di fare a chi cadde nelle sue mani, (pagina 11) prima e dopo la morte. Grande e rara fortuna fu, per gli sventurati, essere di quelli soltanto assassinati. Le già poco gloriose bandiere del marxismo nostrano recano da quel giorno un'immonda macchia che nessun complice silenzio, nessuna fregnaccia demagogica e nessun piagnisteo potrà mai cancellare.
Devo scusarmi del tono non pacato, ma le facce di bronzo che belano a comando di violenza fascista mi producono scariche di adrenalina.
Preferisco parlare dei violenti fascisti, per chiudere con una considerazione che mi sembra faccia giusti-zia una buona volta della catechistica equazione Fascismo = Violenza.
Esibisco come prova il proto-martire Giacomo Matteotti.
Nei libri di scuola (anche quello di 5a elementare del mio bambino) c'è scritto che il Matteotti, intrepido difensore della concussa libertà, aveva pronunziato alla Camera, nel 1924, un forte discorso contro il Governo di Mussolini, e quindi, di li a pochi giorni, fu assassinato da una squadraccia fascista.
Anche se le cose, come vedremo, non andarono affatto così, comincio col registrare che quindi nel 1924, secondo anno del Governo Mussolini si potevano pronunziare alla Camera forti discorsi antifascisti (mica era solo Matteotti!). Ve lo figurate voi uno che nel '93 pronunziasse in pubblica assemblea un forte discorso antigiacobino, oppure nel 1920, a Mosca, un altrettanto forte discorso antibolscevico? E un po' difficile figurarselo, no? Io - sarà che ho poca fantasia - non ci riesco.
Ma vediamo un po' come andarono davvero, le cose.
Da qualche tempo, nell'attigua Francia, quando un emigrato italiano si iscriveva al locale fascio all'estero, su cortese segnalazione di qualche nobile figura di antifascista veniva ammazzato a revolverate ad opera di ignoti che tali restavano, nell'inerzia della Surète. Il nono fu addirittura Nicola Bonservizi, segretario di quel Fascio, uomo onesto e leale. A quel punto, un alto dirigente fascista (Marinelli) incaricò due fedeli ex-squadristi (il Dumini e il Rossi) di recarsi in Francia, con false generalità, spacciandosi per fuoriusciti e svolgendo un'inchiesta nell'ambiente per appurare a chi facesse capo quella sistematica carneficina organizzata. I due, invero un po' scadenti come 007, salvarono la pelle per miracolo (quella del Dumini con buchi), ma tornarono in Italia con un risultato (giusto o sbagliato, nessuno lo sa).  risultato si chiamava Giacomo Matteotti, segretario del P.S.U., e sembra che su quel nome convergessero anche altri indizi in possesso del Marinelli. Ed ecco allora balenare al gruppetto l'idea - non certo da approvare - di mettere alle strette privatamente l'indiziato per farlo confessare. Così Dumini, Rossi e altri tre di loro fiducia aspettano Matteotti sotto casa, lo ficcano a forza in un'auto e si allontanano verso il luogo del previsto colloquio. Sennonché il rapito, tipo poco remissivo, si ribella e ne nasce, sul sedile posteriore dell'auto, una immediata collutta (pagina 12) zione. Ed ecco il disastro inaspettato. Matteotti soffriva di un aneurisma all'aorta (fatto del tutto ignoto ai rapitori). Per qualche percossa sul torace, ma più che altro, io penso, per l'intenso sforzo e la violenta emozione, l'aneurisma si rompe e il deputato muore in pochi secondi. Costernazione degli aggressori, che non sanno che fare. Errano senza méta, per parecchio, come stralunati, per la periferia, col cadavere a bordo, cercando di non dare nell'occhio, e finalmente lo seppelliscono in fretta alla meglio in un boschetto, scavando 50 centimetri di buca con le mani, il crick e il cacciavite della borsa attrezzi.
Scoperto il cadavere, nessun insabbiamento (altri tempi, altro Governo). La polizia indaga a fondo, risale ai colpevoli e li arresta. Processati, vengono condannati, secondo giustizia, per sequestro di persona e omicidio preterintenzionale a sei anni di reclusione. Il governo fascista, nonostante il morto fosse molto ricco, si preoccupa di aiutare la famiglia accollandosi le spese di studio dei due orfani.
Tutti qui, i fatti. Un triste episodio di cronaca nera: delittuoso, certo; doloroso, certo, soprattutto per i congiunti della vittima. Quanto a Mussolini, il suo peggior nemico non avrebbe potuto giocargli uno scherzo più maligno. Ma leggiamo ogni giorno sui giornali di delitti ben più feroci e crudeli, e certamente, molto più infami e raccapriccianti erano state le prodezze socialiste che abbiamo solo in minima parte rievocate e furono in seguito quelle comuniste del post-liberazione. A seguito della sconcia speculazione aventinista che ne seguì e della gratuita e calunniosa campagna di stampa (che il violento Fascismo al governo non represse), più di trenta fascisti innocenti furono assassinati nella seconda metà del 1924, alcuni in modo atroce.
Nondimeno, sono passati quasi settant'anni ma del delitto di quel 10 giugno abbiamo ancora la testa rimbombata. Non c'è straccio di comune che non abbia una strada o una piazza intitolata a Matteotti, neanche fosse Garibaldi. Ce lo sbattono sotto il naso tutti i giorni, persino ai piccoli delle elementari, come simbolo e prova irrefutabile della violenza fascista.
E io vi offro il culto matteottico come prova del contrario.
Se un delitto con quelle modalità, che in un qualsiasi periodo successivo a una rivoluzione cruenta, dal Messico alla Russia, dalla Francia all'Ungheria, dal Nordamerica alla Cina sarebbe addirittura passato inosservato come trascurabile tra ben altri orrori, ha potuto avere da noi tanto alto e perdurante clamore di grancasse e di farneticanti rievocazioni tanto da assurgere a simbolo e da pretendere di giustificare moralmente, allora e in seguito, decine di migliaia di vili assassinii in danno di fascisti (donne, vecchi e adolescenti compresi) ebbene, miei cari, ciò dimostra - oltre alla solita malafede di quella gente -un'altra cosa sola: che QUANTO A MARTIROLOGIO, I DEMOCRATICI E IL LORO CULTU(pagina 13 )RAME SONO PIUTTOSTO A CORTO! Non vi pare?
Se vogliono esorcizzare lo spettro del Fascismo, esorcizzino pure che non ci fanno un baffo. Ma l'argomento violenza, dal loro pulpito poi, è debolino assai.


IL SISTEMA

DITTATORIALE

2° CHE COS'È IL FASCISMO? IL FASCISMO È IL SISTEMA DITTATORIALE
Corollari: Al di fuori della democrazia, non c'è che la dittatura (quindi Fascismo). Qualsiasi democrazia è migliore che una dittatura; dittatura, infatti è la prepotenza di uno solo contro la generalità.

Di tutte le coglionerie che i grandi e liberi intelletti del sistema sono venuti ad assumere - in guisa di bolo, cachet o supposte - dandole poi per scontate nei copiosi e lucrosi parti della loro fervida mente, questa dell'orrore per i sistemi dittatoriali detiene probabilmente il primato di balordaggine.
Sistemi dittatoriali, infatti, non ne sono mai esistiti ed è impossibile che ne esistano, né occorre dimostrarlo: è addirittura vero per definizione. Per dittatura, infatti, si intende quella situazione politica in cui il potere è accentrato in una sola persona, purché ciò non abbia carattere istituzionale ovvero sistematico. Allorché assume carattere istituzionale, divenendo così sistema, non si chiama più dittatura ma monarchia assoluta. Si è dato anche, nella storia, il caso che una dittatura si sia trasformata in monarchia (basti pensare ad Ottaviano, a Gengis Kahn o a Napoleone), ma più spesso essa è cessata col mutare delle circostanze che l'avevano richiesta o propiziata, a cominciare dall'eccezionale personalità del dittatore medesimo.
Anche l'altra convinzione che si è cercato di diffondere nel gregge degli sprovveduti, secondo cui un dittatore (parlo di quelli seri, non di certe caricature centramericane o africane) si imporrebbe come tale con la prepotenza e la forza bruta, cioè senza alcuna legittimazione, è un'altra evidente fola, e il fatto che i più ci credano depone assai male sul livello mentale di quei più.
Certo, giudicare storicamente l'operato di un dittatore che rovesci un precedente regime, alla luce della più rigida legalità secondo il diritto pubblico del regime rovesciato, è operazione stupida, quando non ottusamente faziosa. Restando in Italia, non mi sembra peraltro facilmente contestabile - da un punto di vista giuridico-costituzionale e a voler essere obbiettivi - che il colpo di stato operato il 26 luglio 1943 dal tandem Savoia-Badoglio, con tanto di kidnapping del Capo del Governo in carica, sia stato ben più illegale di quello operato da Mussolini diciott'anni prima. Ma non furono certo considerazioni di diritto costituzionale a indurre chi scrive e tanti altri come lui a schierarsi allora senza un attimo di dubbio contro i fuggiaschi di Pescara.
Parlando di legittimazione, alludo evidentemente a una legittimazione storica e politica. Ebbene - lasciando da parte le dittature istituzionali e temporanee previste dall'ordinamento repubblicano di Roma prima del 44 a.C.- si deve constatare che ogni dittatura si è verificata storicamente in presenza di due necessarie e concomitanti condizioni:
1) Stato di grave marasma, pericolo e discordia interna nella comunità interessata, spesso aggravato da minaccia esterna, dinanzi al quale il sistema vigente si rivelasse impotente;
2) presenza di una personalità emergente per non comuni qualità di decisione e di comando.
Si tratta di due condizioni di fatto che danno luogo a quel fatto politico che è una dittatura. La dittatura è sempre concreta, con tanto di nome e cognome. O c'è o non c'è. Non è come la democrazia, che - essendo un sistema - può esistere sulla carta (costituzionale) e non esistere nella realtà, come quella che ci troviamo sul collo nel Bel Paese.
Orbene, dato che il Fascismo esiste ancora (sennò a che servirebbe l'Anti-fascismo?) e dato che, al momento, delle due condizioni che dicevamo sopra esiste abbondantemente la prima, ma manca del tutto la seconda, di quale sistema dittatoriale che i fascisti di oggi propugnerebbero si va
vaniloquendo? Volere la dittatura in astratto è un non-senso, non meno che combatterla.
Non è ovviamente questa la sede per spiegare che cosa invece vogliono i fascisti di oggi. Dobbiamo concludere il discorso sulla dittatura. Parlavamo prima di legittimazione storico-politica.
Penso che si sia tutti d'accordo sul fatto che governare una nazione non è (o almeno sarebbe bene che non fosse) un privilegio, ma una funzione. La più difficile e delicata delle funzioni. Come per tutte le funzioni, quindi, è auspicabile che essa sia esercitata da chi più possiede le necessarie attitudini. O no?
Bene: prendiamo in esame, da quel punto di vista, un dittatore (nell'antichità, con espressione greca che non aveva nulla di dispregiativo, si chiamava tiranno). Anche nell'ipotesi che egli sia assurto al potere con la forza (il che non è affatto necessario, come nel caso di Pericle, del già menzionato Bonaparte e dello stesso Hitler), non può certo essersi trattato della sua forza fisica personale. La forza dovettero dargliela il numero, la coesione, la decisione, la fedeltà dei suoi seguaci, una forza tale da domare o sopraffare quella degli eventuali oppositori, anche se detentori del potere. Che qualità - chiediamoci - possono assicurare ad un uomo quel consenso, quel seguito, quella fedeltà, non solo da parte di gregari, ma anche di elementi significativi? Non è azzardato dire, mi pare, che siano le stesse qualità (o almeno molto simili) di quelle che occorrono per governare: chiarezza di idee, prontezza di decisione, intuito nella scelta dei collaboratori, prestigio, capacità di interpretare le aspirazioni degli altri e infine quell'impalpabile realtà che si usa definire carisma.
Lungi da noi il sostenere che chiunque assurga alla dittatura sia da ritenere per questo solo fatto capace di governare nel modo migliore. Egli può anche rivelarsi, alla prova, fornito di qualità negative tali da annullare o volgere addirittura contro la nazione quelle positive sopra accennate. Quanto meno, però, quelle positive doveva possederle, e quindi un principio di legittimazione politica - anche se non piena e assoluta - al potere. In caso contrario non avrebbe avuto alcuna forza con cui arrivarci. Ma pensiamo un po' ai requisiti necessari per essere eletti a suffragio universale, che vengono ad essere in democrazia i criteri di selezione della classe dirigente politica. Credo che i nostri lettori siano bene al corrente di come girino gli ingranaggi che portano a un'elezione a suffragio nonché dei carburanti e lubrificanti a ciò adibiti, sia che si tratti di un semplice deputato che del presidente degli Stati Uniti. Non soltanto nulla di ciò che occorre per essere eletto coincide con le qualità di un buon governante, ma addirittura alcuni di quei requisiti (a cominciare dalle forti somme investite nelle campagne) garantiscono che l'eletto partecipe del governo farà cattivo uso del potere conseguito, finalizzandolo agli interessi di chi ce l'ha portato, a rifarsi ad usura delle spese e ad essere rieletto alla successiva tornata.
Ciò posto, il proclamare - anzi il dare per scontato - che l'unica possibile legittimazione storica, politica e perfino morale di chi esercita il potere sia la vincita alla roulette truccata del suffragio universale è così assurdo che puzza un bel po' di malafede.
Allora, è meglio la dittatura?
La domanda è non meno assurda. Continuiamo a gridare fino a farci gonfiare le vene del collo che la dittatura non esiste. Esistono soltanto, qualche volta, i dittatori. Qualche volta. Ora, no, non esiste, neppure potenziale. O forse esiste, ma non lo (pagina 16) sa né lui né noi e fa magari il trattorista a Cassano Ionio.
E allora, che vuol dire che noi saremmo «dittatoriali»?
Ma voi, ci obbiettano, siete fascisti, e il Fascismo fu dittatoriale!
Altra grossolana stupidaggine.
Il Fascismo fu un sistema politico che si affermò e dominò, nella prima sua fase (diciott'anni: 1925-1943) sotto la guida indiscussa di un uomo. Né più né meno di quanto accadde a tutti i regimi rivoluzionari vincenti della storia, indipendentemente dalle idee professate. Purtroppo, il regime fascista ebbe soltanto la prima fase, in quanto i regimi democratici riuscirono a distruggerlo (non con la violenza, naturalmente, ma solo con la dolcezza e la persuasione), prima che cominciasse la seconda fase: quella del Fascismo senza il Duce. Sta però di fatto che fascisti ce ne sono ancora e un bel numero, anche se esserlo non assicura certo vantaggi. E la grande maggioranza di questi fascisti il dittatore Mussolini l'ha soltanto sentito raccontare (e denigrare).
Nostalgici della dittatura? Io sono - e lo confesso - nostalgico di quella non ripetibile dittatura. Ma posso esserlo perché ho 72 anni. E poi la nostalgia è uno struggente sentimento, non una fede politica per cui si possa lottare. Non dicano e scrivano scempiaggini, quindi, le Grandi Penne a tutto servizio.
Non solo il Fascismo-idea non è né potrebbe essere oggi dittatoriale, ma - come sistema - non lo è mai stato. I poteri 'costituzionali di Mussolini, 
anche in forza della diarchia di allora, erano inferiori a quelli di un democraticissimo presidente americano. La sua indiscussa supremazia in quegli anni si fondò soltanto sull'ascendente che egli aveva saputo conquistarsi su tutto il popolo italiano. Ma quello era un fatto spirituale e politico, non certo istituzionale.
Dittatura, oggi?
È certo, e peraltro accertato da secoli, che nelle situazioni più gravi e allarmanti per la cosa pubblica il comando unico può essere il più efficace rimedio di emergenza. Altrettanto certo che di situazioni gravi e allarmanti come quella dell'Italia di oggi se ne son viste poche. Siamo all'agonia generalizzata di tutti i settori.
Il fatto è, però, che quando il dittatore lo sceglieva il Senato (quello romano di patres e di conscripti, non l'inutile doppione di Camera che è quello attuale) il sistema dava buone garanzie, tanto che non risulta che siano state prese cantonate. Ma un dittatore di fatto, portato avanti a furor di popolo lo fabbricherebbe, oggi, la televisione, Dio ci salvi!
La vox populi lo conferma. Da nessuno, infatti, si sente dire in giro: «Ci vorrebbe un dittatore!». Molti dicono: «Ci vorrebbe un altro Mussolini!». Ma è tutta un'altra cosa! (pagina 17)

 

L'AGGRESSIONE

NAZI-FASCISTA

Si tratta in apparenza di un argomento puramente storico e che quindi potrebbe apparire non attuale. Soltanto in apparenza, però, perché l'assioma -dato come al solito per scontato, senza alcun fondamento storico - secondo cui Germania e Italia (o meglio il Nazismo e il Fascismo) avrebbero scatenato la guerra per folle imperialismo aggressivo, mentre gli «Alleati» sarebbero stati i buoni e i liberatori (URSS compresa), ha pesato come una cupa ipoteca su tutti i decenni successivi e ancor oggi è il principale ostacolo alla nascita di una Europa unita.
Persino il Papa, nella recente enciclica sociale, per altri versi nettamente positiva, se ne esce candidamente con l'affermazione S.C.L. che lo scopo degli Alleati sarebbe stato quello di «restituire la libertà e restaurare il diritto delle genti» (!) minacciato «dal militarismo e dal nazionalismo esasperati e dalle forme di totalitarismo ad essi collegate».
Non possiamo quindi, tra le varie panzane truffaldine del S. C. L. , omettere di gratificare anche quella del disprezzo che merita.
3° - CHI HA VOLUTO LA SECONDA GUERRA MONDIALE? - LA SECONDA GUERRA MONDIALE FU VOLUTA DAL PAZZO HITLER PER DIVENTARE PADRONE DEL MONDO, E L'ITALIA VI FU TRASCINATA DAL PAZZO MUSSOLINI, SUCCUBE DEL PRIMO
Corollari: Nazismo e Fascismo sono delitti contro l'umanità bollati per sempre dalla Storia. Gli US.A. sono i poliziotti (o ammazzacattivi) della Terra.

Nel nostro Paese la prostituzione intellettuale in questo senso, dovendosi addirittura esaltare l'ignobile voltafaccia del '43 di cui è figlia l'odierna e non meno ignobile classe dirigente, ha raggiunto vette quasi inimmaginabili.
Ne do un piccolo saggio che ho sottomano: GRANDE ENCICLOPEDIA UNIVERSALE INTERNAZIONALE, Ediz. G.E.U.I.; voce Mussolini Benito: «M. si lanciò in una folle campagna espansionistica, aggredendo l'Etiopia, l'Abissinia (non gli bastava l'Etiopia n.d.a.), I'Eritrea, la Somalia, l'Albania e la Grecia». Per fortuna si scorda il Regno delle Due Sicilie! Vale come assaggino delle vette che può attingere la viltà dei chierici antifascisti.
E vediamo di dire le cose come furono davvero.
Nel 1918 l'impero multinazionale degli Asburgo fu fatto a pezzi.
L'ex Regno di Ungheria formò uno stato a sé. Le genti slave meridionali (Croati, Sloveni, Bosniaci, ecc.) furono accorpate allo Stato slavo vincitore (si fa per dire) e cioè alla Serbia, dando luogo alla famigerata Jugoslavia buonanima. Le genti italiane del Trentino e della Venezia (pagina 18) Giulia furono unite al Regno d'Italia. Coi Boemi, gli Slovacchi e l'attaccatutto, fu inventata persino la nazione cecoslovacca. Le genti tedesche... eh, no! La Germania era in castigo! Allora gli Austriaci dovettero dar luogo a uno Stato separato, i Sudeti furono regalati alla neo patria cecoslovacca e della popolosa città prussiana di Danzica fu fatto omaggio nientemeno che alla Polonia. Ma Danzica è sul mare - direte; non confina con la Polonia! Presto fatto: si disegnò un corridoio polacco che tagliava la Germania in due e portava la Polonia a bagnarsi nel Mare del Nord. Esattamente come dare Genova alla Svizzera, con un corridoio che separasse il Piemonte dalla Lombardia. Vi piacerebbe? Pare che il diritto delle genti di Papa Woityla comportasse questo.
Poi, fu facilissimo. Bastarono tre o quattro big intorno a un tavolo, una carta geografica, una matita e una faccia come il culo che, evidentemente, a quei signori non faceva difetto. Zac, zac, ecco fatto.
Passano 14 anni, e nel 1933 sale (democraticamente) al potere in Germania il pazzo, megalomane, frocio, antropofago, sadico (spazio da insulti a volontà) Adolf Hitler. E che si mette in mente costui?
Nientemeno (scusate se rivelo cose raccapriccianti; donne incinte e bambini innocenti saltino questo periodo) di riunire tutte le genti tedesche sotto un'unica bandiera!
Sforzandosi di reprimere l'orrore per l'infame disegno, si potrebbe invero anche opinare che era esattamente quello che, per l'Italia, vollero tutti gli artefici del Risorgimento, anche senza essere mostri. Nel giro di soli 22 anni non fecero costoro due guerre per la Lombardia, una per il Veneto, una per l'Italia sud-insulare e una per Roma (per tacere delle spedizioni minori)? E che, vogliamo dir male di Garibaldi, ora?
Comunque, nel 1939 Hitler aveva ormai raggiunto lo scopo, sia per i Sudeti che per gli Austriaci, e ciò con massima soddisfazione di questi ultimi, a giudicare dai risultati dei rispettivi plebisciti (ce li avemmo anche noi, i plebisciti, ricordate?). Restava Danzica e il suo «corridoio», che è difficile negare fossero una vera mascalzonata. Un'assurda rapina a mano armata, consumata vent'anni prima, alla faccia delle messianiche fregnacce di Wilson.
Hitler il mostro ci si mise con la pazienza e la persuasione. Offrì alla Polonia le condizioni più comprensive (porto franco a Danzica, libero passaggio per il «corridoio»), purché rinunziasse a quello che era un autentico oltraggio alla nazione tedesca (e pure al famoso diritto delle genti, no?).
E i Polacchi, saggiamente, si erano convinti.
Ma ecco piombare gli Inglesi e il loro Grande Suggeritore d'oltre Atlantico a brigare freneticamente perché la Polonia mandasse tutto all'aria. Tutta la potenza persuasiva, finanziaria, economica e politica delle democrazie anglosassoni e francese si concentrò come un laser su Varsavia per far cadere il governo «rinunciatario» e (pagina 19) soffiare sul fuoco dello sciovinismo bellicista ad oltranza. Rifiutate, o Polacchi! Difendete fieramente la vostra refurtiva, che ci siamo qua noi! Troncate le trattative, che se quello si azzarda a muovere un solo soldato lo polverizziamo! Le ambasciate in Polonia del Regno Unito e della Francia ronzarono come alveari, sparando promesse, assicurazioni e garanzie come se piovesse. Finché la spuntarono.
Ma perché mai? - domanderete. Erano tanto terrorizzati Inglesi, Francesi ed entourage rooseveltiano davanti all'ipotesi che una città - tedesca quanto è italiana Firenze - ritornasse tedesca?
Lo erano, e alla luce dei successivi avvenimenti non può sussistere dubbio. E lo erano perché Danzica - al di là di tutte le romanzesche panzane liberatorie - era l'ultima rivendicazione tedesca. Soddisfatta quella, quale altro pretesto vi sarebbe stato per scatenare la guerra? Ed era la guerra che loro volevano, la guerra per la distruzione delle nazioni fasciste: Gran Bretagna e Francia nella puerile illusione di conservare l'egemonia arraffata a Versailles impedendo alle «nazioni giovani» di surclassarle; gli U.S.A. per spazzare via gli ostacoli al mondialismo economico, esigenza vitale del capitalismo integrale.
Oggi affermare una cosa del genere sembra blasfemo, ma a chiunque non abbia del tutto subito il lavaggio del cervello negli anni torbidi di questa cosiddetta pace, basta adoperare un briciolo di buonsenso per confermarla.
Per volere la guerra, Hitler e Mussolini, più che pazzi, avrebbero dovuto essere scemi. Ora. di Mussolini nessuno ha mai affermato questo, neanche le più puttane fra le Grandi Penne. Ma anche Hitler, siamo seri! Uno che dipinge cartoline per procacciarsi un pezzo di pane, non diventa in quindici anni capo indiscusso di una nazione come la Germania e idolo di milioni di giovani (tedeschi e non) se non ha perlomeno un po' di sale in zucca, non vi pare? Magari mostro, magari belva, magari Satanasso incarnato, ma fesso no! Se c'è un fesso è chi può (pagina 20) crederlo. E allora, poniamo mente alla Germania e all'Italia del 1939, capeggiate dai due detti sopra: quella unita, potente, con una economia in galoppante progresso, ricca di materie prime, con prestigio ed influenza crescente; questa concorde, in ascesa in tutti i campi, con un recente impero che offriva sbocchi illimitati al lavoro del suo popolo e vaste simpatie nel mondo arabo. Contro chi e perché mai avrebbero dovuto volere una guerra distruttiva? Per brutale malvagità, forse? Eh, via, lasciamo che siano gli attuali cialtroni a raccontare queste bubbole ai bambini delle elementari!
Ho vivo il ricordo, nel 1938, di una mattina in cui uscendo dal liceo Tasso, mi imbattei sul corso d'Italia in una fragorosa sfilata fascista. Erano cingoli, ma non di carri armati: di centinaia di trattori agricoli. In testa, truci agricoltori del Regime inalberavano un enorme striscione: QUESTA E LA GUERRA CHE NOI PREFERIAMO. LASCIATECI LAVORARE IN PACE.
Ma loro non potevano lasciarci lavorare in pace, né noi né i tedeschi. Avrebbe significato, per il mondo del capitalismo, della democrazia e degli «immortali principi», in breve volgere di anni, un'altra crisi ben più distruttiva e irreversibile di quella del 1929. Avrebbe significato lo scoppio spontaneo del bubbone sovietico con venti o trent'anni di anticipo. Avrebbe significato l'affermazione dei movimenti filofascisti in Francia, in Belgio, nei Balcani, in Scandinavia, in Spagna, in tutto il mondo arabo, persino in Gran Bretagna.
Lo sapevano «loro» e lo sapevamo bene anche noi.
E lo sapeva quel cinico strumento della sopraffazione plutocratica che fu Franklin Delano Roosevelt, artefice massimo del grande macello. Quando dovette constatare che il fiume di denaro e di mezzi che egli aveva riversato sin dall'inizio sulle democrazie belligeranti non bastava ad evitarne la sconfitta, egli decise di scatenare contro Berlino e Roma tutta la potenza industriale e militare degli U.S.A., anche se il popolo americano -per infantile che fosse- non voleva saperne di guerra, di cui non vedeva alcun motivo.
Ormai, il turpe marchingegno a cui ricorse per superare l'ostacolo è consegnato alla storia. Cominciò con l'escalation delle più gratuite e truculente carognate contro il Giappone. E, quando il governo del Tenno giudicò che la misura era colma e non vide altra via che il ricorso alle armi, arrivò all'infamia di tacere al proprio stato maggiore e allo sventurato presidio di Pearl Harbour l'imminenza dell'attacco giapponese di cui era perfettamente informato, pur di scatenare l'indignazione popolare per la «proditoria aggressione». La strada contro Roma e Berlino era così aperta. Il Giappone, capirete, era nostro alleato, e di conseguenza...
Insomma, l'odio e la ferocia con cui gli Yankees si accanirono contro la Germania e l'Italia (popolazioni civili e patrimonio artistico incluso), il regalo di mezza Europa al buonuomo (pagina 21) Stalin, la volontaria e dosata acquiescenza al genocidio dei Tedeschi dell'Est e alle «radiose giornate» del Nord-Italia, non furono che la legittima reazione degli innocenti Statunitensi alla cattiveria dei Giapponesi quel 7 dicembre nelle Hawaii. E così ci ritrovammo «aggressori», oltre che degli U.S.A., persino del Brasile e della Nuova Zelanda. La storia è storia.

* * *

Qualcosa resta ancora da dire sulla «folle scelta di campo» di Mussolini (condivisa, dobbiamo aggiungere, dalla quasi totalità degli Italiani del tempo).
Secondo la «cultura» liberatoria, sembra che l'Italia -che era vissuta, fino al 1939, in una specie di utero o di limbo- ne mettesse fuori il tapino in quell'anno e si accorgesse che era cominciato un conflitto. Da una parte i nobili e democratici campioni del diritto delle genti (rieccolo!) e dall'altra parte il truce tiranno Hitler assetato di sangue. Che ti fa Mussolini? Sol perché sembrava che il secondo avesse la meglio, fa la scelta infame e pugnala alle spalle la «sorella latina». Vi pare bello?
Più in là, la congrega degli ex-fuorusciti e dei Maddaleni pentiti non ci arriva. Ognuno ha i suoi limiti. Noi, che non abbiamo ceduto il cervello né altre meno nobili parti anatomiche, abbiamo la memoria un po' più lunga.
Ci ricordiamo che la civiltà europea fu romano-germanica.
Ci ricordiamo che tra la Germania e l'Italia non esisteva alcun conflitto d'interessi, per avere esse due zone d'influenza ben distinte (la Drang nach Oesten per loro e il Mediterraneo e l'Africa per noi). la questioncella Alto Adige essendo stata ottimamente risolta da persone serie tra i due tiranni. Per uno stabile assetto europeo, la Germania quindi, e prima d'essa la Prussia, era il nostro naturale alleato (realtà, questa, ben evidente da un secolo, persino ad Abramo Lincoln, che ne scriveva ai patrioti italiani).
Ci ricordiamo per converso che lo sviluppo della potenza e prosperità dell'Italia aveva invece come irriducibili avversari Gran Bretagna e soci, del che ci avevano dato mirabile prova tre anni prima, con l'accanimento sanzionista contro l'impresa etiopica, con le menzogne più infamanti contro i nostri legionari, con la Home fleet nel Mediterraneo e col profluvio di armamenti e di «consiglieri» al Negus (mentre la Germania ci aveva sostenuti e aiutati).
Ci ricordiamo che nella guerra di Spagna, da noi combattuta per sbarrare al bolscevismo l'accesso al Mediterraneo, i piloti tedeschi si erano battuti al nostro fianco, mentre le «grandi democrazie» sostenevano con i quattrini, la propaganda, gli armamenti e le Brigate Internazionali gli assassini di Negrin.
Ci ricordiamo che tra Italia e Germania vigeva uno stretto patto di alleanza.
E ci ricordiamo - last but not least - che i movimenti nazionali italiano e tedesco, pur nelle loro diversità, (pagina 22) avevano congiunto i loro destini levando insieme la bandiera della libertà degli uomini e dei popoli dalla cupa tirannia della plutocrazia internazionale, che dal suo canto non mancava occasione per proclamarci il suo odio e la sua volontà di distruggerci.
Ricordandoci bene tutto ciò, allora come oggi, ci dovrebbero proprio spiegare, i compunti biascicatori del catechismo liberatorio, per quale mai motivo avremmo dovuto volare al soccorso di quelli che covavano la vendetta per lo smacco del '36.
Forse per rivedere la bandiera polacca sul municipio di Danzica? 


DEMOCRAZIA
È
BELLO

4° CHE COSE' LA DEMOCRAZIA A SUFFRAGIO UNIVERSALE? LA DEMOCRAZIA A SUFFRAGIO UNIVERSALE È, IN ASSOLUTO, IL MIGLIOR SISTEMA POLITICO CONCEPIBILE
Corollari: Chi osa dubitarne è indegno di appartenere al consesso umano. Il Fascismo, avendola rinnegata, è stato definitivamente sepolto nella pattumiera della storia. Chi bestemmia la Sovranità Popolare è fascista.

Evidentemente, dico io, sono fasciste anche la Logica e la Realtà, che della democrazia stanno facendo in questi mesi orrido scempio, ad onta dei commoventi sforzi del Presidente di Salvataggio.
Churchill, il grande e isterico liquidatore della potenza britannica, ebbe un giorno a dire: la democrazia è un pessimo sistema, pieno di difetti, ma non ne conosco uno migliore. Era un po' a corto di conoscenze, il WC; e volubile, anche, se è vero che pochi anni prima, in piena dittatura fascista, aveva dichiarato che, se fosse stato italiano, sarebbe stato fascista anche lui. Ma lasciamo perdere.
Io, che per il suffragio universale ho sempre provato grandissimo schifo, dal fondo della mia fogna di nequizia cito quali testi a discarico la Logica .e la Realtà, che di questi tempi vanno povere e nude come me, a differenza della Filosofia (che ha fatto fortuna per oltre un secolo vendendo ai politici scadenti ideologie). E mi accingo, coll'aiuto di quelle due impopolari signore, ad addentare il quarto degli assiomi mistificatori di che si sustanzia il S.C.L.
In questi giorni, il discorso viene a fagiolo.
Intorno al letto di dolore della democrazia in agonia, si affollano infatti i medici professionisti e dilettanti alla ricerca di questa o quella terapia salvifica. Almeno su una cosa, essi sono tutti d'accordo: che la poveretta è dimolto, dimolto malata.
Solo il Custode della Costituzione continua a ripetere che è solo leggermente indisposta e che le sue cacofonie non sono rantoli d'agonia ma solo un po' di raucedine di stagione (pagina 23) 
Però lui è, appunto, Custode, non medico, e quindi non è tenuto a sapere di medicina.
Beh, io contesto sia i medici che lui.
Non è malata, né molto né poco: è lei la malattia! Malata è la nazione italiana, di cui pare non si preoccupi nessuno.
E mi spiego terra terra, sdegnando l'uso del politichese.
Una nazione ha assoluto bisogno di essere governata, giusto?
Per governarla ci vuole un certo numero di persone che si dedichino a tempo pieno alla bisogna. Nel loro complesso, si chiamano classe dirigente politica. Da parecchio tempo in qua, dato il complicatissimo modo di vivere che gli uomini moderni hanno adottato (non dico scelto, perché la scelta non l'hanno fatta loro) tale classe dirigente dev'essere parecchio numerosa. Diciamo un decimo dell'attuale, perché gli altri 9/10 sono comunque dannosi.
Governare, credo, significa fissare gli obbiettivi dell'azione dello Stato e scegliere i metodi generali e particolari per meglio raggiungerli. Non è roba da poco, nevvero?
Bene, passiamo ad altra osservazione che sembra ovvia, ma ovvia evidentemente non è: per fare bene una qualunque cosa bisogna saperla fare. Più la cosa è difficile e complessa, più occorre possedere le attitudini naturali per farla, e inoltre affinarle con la preparazione (correggetemi se sbaglio).
Ora, dato che, come s'è accennato, governare una nazione è cosa molto difficile, occorre che l'incarico sia affidato a gente quanto mai qualificata. sia quanto a capacità (naturale e acquisita con lo studio e l'esperienza), sia quanto ad onestà (e cioè perseguire effettivamente e soltanto l'interesse generale e non altri), sia quanto a dedizione (in parole povere, voglia di lavorare e spirito di servizio).
Il problema di un sistema politico è quindi questo: come designare una classe dirigente pubblica che possieda nel grado maggiore possibile i requisiti sopra detti.
I vari sistemi ipotizzabili, che vanno dalla monarchia assoluta alla democrazia a suffragio universale, non sono che metodi diversi per (pagina 24) raggiungere lo stesso obbiettivo: dare allo Stato una valida classe dirigente. L'unico che può garantire una oculata, regolare e feconda gestione della cosa pubblica.
E arriviamo al punto: da che il mondo è mondo, esiste un solo modo serio per qualificare un metodo come buono o cattivo: il collaudo. Dall'elettronica alla biologia, dall'agricoltura alla medicina, allo sport, alla pedagogia, alla culinaria, in tutti i campi e a tutti i livelli un metodo è buono quando raggiunge lo scopo; cattivo quando non lo raggiunge. Le chiacchiere e i filosofemi, quando si tratta di scegliere un metodo, sono soltanto perniciose fregnacce, soprattutto poi se immortali. Saranno immortali loro, ma sono mortali per le loro disgraziate vittime, che - in politica -sono le nazioni.
Non sto affatto sostenendo che il fine giustifica i mezzi. Certo, nell'adottare una metodologia si devono fare anche altre considerazioni. Anche. Ma quella dell'idoneità a raggiungere lo scopo è e resta sempre - per un metodo - la prova risolutiva e inappellabile. Uno che, per i più nobili motivi di principio, adottasse per arrestare un'emorragia un metodo che lascia scorrere il sangue come prima 'sarebbe soltanto un coglione. Lo diceva anche Gesù Cristo, che non era certo un amorale: l'albero si giudica dai suoi frutti.
Vogliamo provare allora a giudicare la democrazia del S.C.L. col sistema dei risultati?
In Italia, possiamo osservarla sperimentalmente dal 1848 al 1922 e poi dal 1945 al 1993. Quale classe dirigente politica selezionò essa per la nostra Patria?
Cominciamo dal Risorgimento. La famosa e un po' oleografica Trimurti risorgimentale, fuor d'ogni dubbio, fu composta di persone (Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini) non selezionate democraticamente. L'unico prodotto del nuovo sistema fu Cavour, ma per modo di dire. Va infatti considerato che Cavour - uomo furbo che, vivaddio, usò la propria furbizia al servizio dell'unità d'Italia -innanzi tutto si era affermato in politica sotto la monarchia assoluta, e poi giunse alla presidenza del consiglio vigendo un suffragio che non era universale neanche un po'. Poi, universalizzandosi via via il suffragio, esso consegnò il timone alla nazione a ometti come Menabrea o Facta o, peggio, a grossi intriganti come un Giolitti e un Nitti. Alla fine dell'esperimento (1919-22) la classe dirigente democratica era capace solo di litigare e niente affatto di governare, il Paese era allo sfascio totale generalizzato, il sopruso e il disordine erano la regola e i poveri Italiani non ne potevano più.
Tant'è che, quando Mussolini si prese il potere con le buone e con le cattive, raggiunse in pochi anni un consenso che nessun democratico al mondo si è mai sognato, e l'Italia, usa ad essere guardata dall'estero con compassione, si ritrovò in breve ad essere guardata con invidia.
Ma torniamo al beneamato sistema democratico e vediamo il secondo periodo di prova dei risultati: quello liberatorio. Non occorre neanche vincere il disgusto per parlarne: basta aprire un qualsiasi quotidiano, ora che il suffragio universale ha raggiunto il massimo del suo rigoglio, rimanendo esclusi dai diritti politici solo gli animali e le piante. La classe dirigente (non c'è niente da ridere!) che ne è uscita è un'accozzaglia rissosa di chiacchieroni, di incapaci e di ladri; l'Italia è l'ultima nazione di Europa; i giovani nati in questa melma fetente non sanno neppure che significhi senso dello Stato e solidarietà nazionale. E così o no?
E allora, com'è andato il collaudo?
Però, c'è una legge (ovviamente, democratica) che proclama che questo sputtanatissimo sistema è per tutti i secoli dei secoli il non plus ultra della civiltà e del progresso (amen), che il metterlo in dubbio è Fascismo e che il Fascismo - come è noto - è un reato come l'abigeato o il falso in assegni. Solo in regime di democratica libertà si poteva partorire una legge del genere. Ma si è partorita.
E siccome il cittadino che non rispetta le leggi è un delinquente, tutti hanno l'obbligo giuridico di far finta di credere a quelle fregnacce e di darsi da fare per salvare la democrazia. Per me, preferisco rivendicare il titolo di delinquente.


LA LIBERTÀ

CONCULCATA

È questo il pezzo forte del Santo Catechismo Liberatorio, e non a caso. LIBERTÀ, infatti, è una parola grimaldello, una sorta di passepartout buono per tutte le serrature, come tale largamente impiegato da tutti i manigoldi ideologico-politici.
È un vocabolo che (come amore, pace ed altri) può essere usato in tanti significati diversi e persino opposti che finisce col non averne alcuno, ammenoché uno non si sobbarchi ogni volta alla fatica di precisare con parole diverse in quale senso lo adoperi. È insieme la radice di liberale e di libertario, di liberista e di libertino; può ispirare eroismi e (pagina 26) giustificare infamie: può elevare o degradare a seconda di come la si intenda.
Libero viene da un antico radicale indoeuropeo, che significava in origine semplicemente appartenente alla stirpe. E, siccome in molti antichi ordinamenti sociali gli appartenenti alla stirpe che li aveva istaurati costituivano le classi superiori, mentre gli elementi allogeni componevano la classe servile o quasi (immigrati o prigionieri di guerra), liber finì coll'essere il contrapposto di servus, come a Roma, equivalendo addirittura a figlio, quale membro della famiglia non servus. Va notato come la qualità di libero non era affatto ritenuta - per i figli - in contrasto con la loro totale soggezione alla patria potestas.
Da quel preciso ambito giuridico-sociale, coi secoli la libertà straripò nel linguaggio in tutte le direzioni, fino alla ruota libera, al telefono libero, al libero scambio e alle camere libere. Cavolo, ci si libera persino andando al gabinetto!
Una siffatta indeterminatezza offre il destro al S.C.L. per fame oggetto del suo quinto assioma, che è forse il principale.
5° CHE COS'E LA LIBERTA? LA LIBERTA E IL BENE SUPREMO.
Corollari: La democrazia è quindi il bene perché è regime di libertà, mentre il fascismo è il male perché la conculcò. La peggior democrazia è quindi da preferirsi comunque al fascismo. Alla Libertà compete l'iniziale maiuscola come a Dio, a Amalia e a Gallarate.

Capite adesso perché tutto il gregge dei politici pastori, cani inclusi, davanti alla totale e disonorevole bancarotta delle istituzioni democratiche, che rischia di sfasciare la nazione intera e di venderla a prezzo di rottame, beli all'unisono col Supremo Custode: salviamo le istituzioni?
Ho già rilevato come ciò equivalga ad affermare che non importa salvare il malato ma la malattia, nondimeno ciò sembra a quelli perfettamente logico, proprio per questa faccenda della Libertà.
E vediamola un po' a mente sgombra, allora, questa Libertà.
Nell'accezione più corrente, libero sarebbe colui a cui non viene imposto di agire difformemente dalla propria volontà.
Già questa definizione è zoppa. Ponete il caso che, a Roma-Termini, un tizio con valigia chieda a un altro qual è il treno per Torino e che quello, per errore o per malizia, gli indichi il diretto per Napoli (via Formia). Il malcapitato, fidente, sale sul treno indicatogli. Non gli è stato imposto nulla ed egli ha preso quel treno volontariamente. Ciò non toglie, però, che volendo andare a Torino egli si trovi in effetti a viaggiare nella direzione opposta.
Si vuol dire che la libertà può trovare un limite non soltanto nella imposizione, ma anche nell'inganno, che infatti in tutti i codici civili è considerato causa di vizio del consenso al pari della violenza.
Cominciamo ad occuparci delle imposizioni.
(pagina 27) Tutti sanno che esse possono essere di due generi, e cioè legali (quelle operate da leggi, decreti, regolamenti o comandi amministrativi) oppure illegali (violenze o minacce da parte-di privati).
Cominciamo dalle prime. Chiunque, come me, si trovi nella condizione di aver vissuto sia sotto il regime liberticida che sotto quello democratico, sa bene che gli obblighi o divieti esistenti oggi sono senza confronto più numerosi di quelli vigenti allora. Il libero cittadino, da che si sveglia al mattino, è costretto a una specie di gimkana tra un fitto di disposizioni comunali, regionali o nazionali sino a notte, tanto che non può fare a meno, per osservante e ligio che sia, di buttar giù almeno una decina di birilli. Obblighi, divieti, nulla osta, balzelli, registrazioni, ordinanze, timbri, procedure, moduli da compilare, controlli, limiti, attese, intralci come se piovesse lo bersagliano senza pietà. Se poi è così folle da voler fare qualcosa che esorbita dal piatto trantran quotidiano, quale - chessò- iniziare un'attività economica, costruirsi una casa, costituire una società o simili, allora incappa in un tale ginepraio di disposizioni vessatorie, minuziose, pasticciate, spesso incomprensibili o addirittura contraddittorie che senza un legale o commercialista che lo assista e -meglio- qualche santo in paradiso, è difficile che ne cavi le gambe.
Vediamo ora le imposizioni illecite. Nessuno in buona fede può ormai dubitare che le istituzioni (quelle che il Supremo Custode si affanna a salvare) si siano rivelate un fantastico brodo di cultura per illeciti impositori come la mafia, la camorra, la ndràngheta, l'anonima sequestri. Mai nella storia patria essi avevano raggiunto infatti l'attuale potenza e rigoglio, né intrecciato tanta corrispondenza d'amorosi sensi coi rappresentanti del popolo di tutte le taglie, affamati di voti. Questi ultimi poi, se non andiamo errati, non sono da meno, in fatto di delinquenza organizzata e di imposizioni illecite, essendo riusciti col sistema tangentizio a taglieggiare per decenni l'intera imprenditoria dell'Italia rinnovata e redenta. Ebbene, l'insieme di tristi realtà - note ormai lippis et tonsoribus - che abbiamo sopra accennato, che cosa fa alle libertà civili? Le conculca o non le conculca? Ci sembra per vero che, quanto a negazione delle libertà civili, questo regime sia stato un'autentica vergogna. Fare un paragone col regime precedente sarebbe veramente istruttivo. Purtroppo, non si può fare. È proibito. Ti ficcano in galera. Hanno pensato a tutto, quei figli di puttana!
E poi dobbiamo essere obbiettivi. A petto di quel profluvio, mai prima conosciuto, di imposizioni, di prepotenze e di angherie, mamma democrazia qualche libertà civile in più l'ha anche elargita. Otto, per l'esattezza. Mica sono poche!
Naturalmente, per farlo, si è ben guardata dal sacrificare la minima briciola del proprio potere. Che volete, ci è troppo affezionata. Ha sacrificato quello a cui non tiene (pagina 28) troppo, anzi diciamo pure che non glie ne frega niente, come la salute fisica e mentale o la dignità, serietà e decoro degli Italiani o l'integrità delle loro famiglie. Le prime sei «conquiste civili» sono:
1 - Libertà di aborto, 2 - Libertà di adulterio, 3 - Libertà di pornografia, 4 - Libertà di prostituzione, 5 - Libertà di sodomia, 6 - Libertà di droga.
Vengono poi le altre due, che sono nettamente fraudolente, in quanto finalizzate addirittura ad aumentarlo, quel potere, e ancor più i poteri incontrollati e sinistri che ci sono dietro:
7 - Libertà di sciopero, 8 - Libertà di stampa e di antenna.
Alla libertà numero sette dedicheremo un successivo articolo. Di quella numero otto diremo subito.
Già, perché prevediamo l'obiezione di quelli che difendono le famose istituzioni.
E LE LIBERTÀ POLITICHE NON LE CONSIDERATE? Eccola, l'obiezione.
Certo che le consideriamo. Solo che per quelle si va di male in peggio.
Le libertà politiche sono, in fondo, una sola: quella di scegliersi liberamente i propri governanti col suffragio universale. E' per salvare quel prezioso bene che lorsignori intendono salvare le istituzioni, capito?
A vedere come stanno realmente le cose - e anche questo non è affatto un segreto - la faccenda fa però assai più losca, e si avverte sempre più forte quel puzzo di truffa che emana da tutto il Santo Catechismo Liberatorio.
Cominciamo col dire che ci sono, in pratica, due modi di votare.
Il primo costituisce reato, per il quale il codice commina la reclusione da sei mesi a cinque anni oltre a congrua multa. Mi spiego: non c'è dubbio che, secondo i  canoni democratici, il voto sia una pubblica funzione, anzi addirittura la funzione primaria e sovrana, cui si deve se il potere risiede nel popolo (Art. 1 Co.). Nel momento in cui vota, il cittadino è quindi un pubblico ufficiale; non si scappa.
Ebbene, le pubbliche funzioni vanno esercitate nel pubblico interesse. Chi le esercita per conservare od ottenere un beneficio personale o familiare è colpevole di interesse privato in atti di ufficio. Il voto cosiddetto clientelare è pertanto un reato, e nulla toglie a tale indubitabile verità il fatto che sia in pratica difficile perseguirlo in quanto il reo è protetto dall'anonimo.
Il secondo modo di votare è invece regolare e istituzionale. E quello di chi vota davvero allo scopo di scegliere quelli che a suo parere saranno i migliori legislatori e governanti della nazione.
Se il voto fosse veramente libero, se ne dovrebbe concludere che il popolo italiano, o almeno la maggioranza di esso, vuole essere governato da chiacchieroni incapaci e ladri, quali si sono clamorosamente rivelati gli statisti selezionati da quasi mezzo secco di rigoroso suffragio universale.
E davvero piuttosto difficile credere che gli elettori volessero questo. Basta considerare quanto sono (pagina 29) incazzati ora che si sono accorti che razza di gente hanno mandato nelle stanze dei bottoni.
Torna allora buono a questo punto quel paragone ambientato a Roma Termini di cui ci servimmo più sopra. Gli elettori non furono affatto politicamente liberi, in quanto furono presi per i fondelli. Il popolo italiano è stato indotto col raggiro a votare bianco volendo nero; a votare mascalzoni volendo onesti; a votare cazzabubboli volendo capi.
E quel raggiro, dobbiamo aggiungere, non è stato un inconveniente. È stato un raggiro istituzionale, lecito, sancito dalla costituzione, consistente proprio nell'ottava e più nociva di tutte le elargite libertà: quella di stampa e di antenna.
Tradotta in termini pratici e attuali, essa significa che i pochi che dispongono del potere di fatto necessario per controllare le grandi emittenti e i grandi quotidiani hanno piena libertà di plagiare e condizionare per i propri fini i milioni di poveracci che poi vanno a esercitare la loro illusione di sovranità ficcando il fatidico prezzo di carta nell'apposta fessura...
E la libertà politica vanto della democrazia sarebbe questa?
Ma ci facciano il piacere!

 

RAZZISMO

 

Il saldo possesso di tutti i mezzi di comunicazione di massa da parte della plutocrazia regnante (con o senza il patetico tramite dei cosiddetti Stati) permette a quella ovviamente di soverchiare con ben orchestrato clamore tutte le voci dei propri avversari.
Ma non basta: permette molto di più. Permette di fabbricarseli a sé, gli avversari, sufficientemente idioti, repellenti e raccapriccianti perché a nessuno possa saltare il ticchio di tifare per loro.
Un ingenuo potrebbe osservare che combattere contro avversari posticci e fabbricati apposta per prendere gli schiaffi fosse ben facile ma del tutto improduttivo. Non è mica vero! Sarebbe vero se i padroni della Terra, grazie alla onnipotenza informativa detta sopra, non potessero permettersi anche una ulteriore fase del giochetto. Consiste in questo: una volta confezionati come sopra i ripugnanti, abominevoli, grotteschi mascheroni e messa a fuoco su di essi la vibrante (pagina 30) indignazione delle masse evolute e telecoscienti, basta una parolina sussurrata all'orecchio di quelli della libera e democratica stampa perché - plaf!- i manufatti vengano saldamente appiccicati alla faccia di chiunque si sia deciso, per un motivo o per un altro, di strozzare o strumentalizzare. Protestare, da parte del malcapitato, è del tutto inutile, sia perché, dato il fracasso, non lo sente nessuno, sia perché i pochi che lo sentissero si guarderebbero bene dal dare udienza a cosiffatto mostro. Mi spiego?
La faccenda del RAZZISMO è, in proposito, emblematica. Cerchiamo di vederci un po' chiaro:
Due incontrovertibili dati di fatto: 1) esistono diverse dottrine politico-sociali; 2) esistono altresì diverse razze umane e innumerevoli sotto razze.
Le diverse dottrine attribuiscono però al fattore razziale (e cioè alle caratteristiche fisio-psichiche congenite delle diverse genti) un diverso grado di importanza, tra due estremi. Tali estremi sono, da un lato, quello che considera la purezza razziale, geneticamente intesa, fattore essenziale e condizione indispensabile di qualsiasi forma accettabile di convivenza; dall'altro lato quello che dichiara l'appartenenza etnica del tutto irrilevante e ritiene auspicabile che gli uomini siano tutti mescolati in un colossale minestrone di meticci.
Ambedue gli estremi, detto per inciso, sono chiaramente inaccettabili.
Il primo, innanzi tutto, perché cozza contro il fatto che la maggior parte dei popoli sono già un miscuglio inestricabile di razze o almeno di etnie (noi Italiani dovremmo saperne qualcosa). Non potendosi ignorare tale realtà di fatto, la prima tesi estrema può e poté trovare un certo credito solo presso popolazioni ancora relativamente omogenee (come i tedeschi), che tendano (e la cosa in sé non ha nulla di orripilante) a conservare i benefici di tale fortunata omogeneità. Purtroppo un tale razzismo «conservativo» tende a degenerare, nella grossolana coscienza di massa, in xenofobia, e cioè in ostilità e di-sprezzo per le altre etnie, soprattutto se vicine. Un'altra e più pericolosa degenerazione è quella derivante dal valutare le altre culture col metro della propria, e in base ad esso considerarsi superiori e destinati a dominare. E noto come i bianchi, ultimi arrivati nel nuovo (per loro) mondo, abbiano in modo brutale, feroce e disonesto espropriato e sterminato gli Amerindi, considerandoli razze inferiori e privi di diritti. Non diversamente gli Ebrei di osservanza talmudica si ritengono popolo eletto per decreto di Geova, il quale realizzerà il proprio regno sulla Terra affidandone la gestione proprio a loro, coi Goim nel ruolo di sudditi. A nulla vale l'osservazione che anche tale razzismo trascendentale sia gravemente a corto di fondamento... razziale, dato che gli Ebrei attuali -e soprattutto gli Askenaziti che sono tra loro la grande maggioranza- hanno nelle vene più sangue caucasico e slavo che semitico.
Del tutto folle e aberrante è poi l'altro estremo a cui accennavamo, che (pagina 31) proclama sacro dovere di civiltà far conto che le razze non esistano affatto, dato che un Cafro immerso in candeggina ne uscirebbe del tutto identico a un Norvegese. L'affermazione è tanto smaccatamente ideologica e priva di contenuto conoscitivo che non merita neppure una confutazione. Non è una teoria: è solo una stupidaggine. Rientra peraltro del tutto nel quadro patologico della cosiddetta civiltà moderna, della quale è rigorosamente coeva.
Solo un secolo addietro, infatti, una ridicolaggine del genere non se la sarebbe sognata nessuno, bianco, nero o giallo che fosse. E solo pochi decenni fa Albert Schweizer, che fu forse l'uomo bianco - che professò e dimostrò con le opere maggior amore per i negri, tanto da dedicare loro la propria vita, dava dell'imbecille a chiunque gli parlasse di uguaglianza ontologica tra sé e i propri assistiti di Lambarenè.
Come un'idea che, in tutta la storia umana, chiunque avrebbe tenuto per ridicola possa avere oggi tanta fortuna non è difficile spiegarselo. Dipende dall'assoluto disprezzo che la civiltà capitalistica e tecnocratica, tutta fondata sulle cose, sulle macchine, sui beni materiali, nutre per l'uomo, per la sua natura, per le sue autentiche esigenze, per le sue qualità intrinseche. In un mondo fatto di computers, di motori, di tecniche, di denaro; in un mondo in cui tutto è standardizzato, preconfezionato, omogeneizzato, appiattito, gli uomini finiscono davvero, agli effetti pratici, per essere uguali e fungibili. Davanti a una calcolatrice, ai comandi di un auto, a un telefono o a una pala meccanica, effettivamente un Bantù, un Olandese o un Cinese si comportano nello stesso automatico modo ed è come se fossero uguali. Della loro anima chi se ne frega: questo è il succo. Ai fini dei profitti della Coca-Cola è solo un fastidio.
Ma non posso dilungarmi sull'argo¬mento, solo indirettamente attinente al tema di questo articolo, e tanto meno esporre quello che, secondo la gente del mio stampo, è il retto e ragionevole atteggiamento dinanzi alla molteplicità razziale.
La mia dichiarata intenzione è infatti quella di occuparmi del razzismo secondo il Santo Catechismo Liberatorio (S.C.L. per brevità), e la cosa non ha nulla a che fare con un dibattito serio sui problemi posti dalle diversità razziali e dai rapporti tra le diverse ernie.
Partiamo quindi dal S.C.L..

6° CHE COS'E IL RAZZISMO?
IL RAZZISMO E L'ODIO VISCERALE PER LE RAZZE DIVERSE DALLA NOSTRA E LO STIMOLO ALLA VIOLENZA CONTRO DI ESSE.
Corollari: Il razzista è uno scemo e un pazzo pericoloso. La parola RAZZA è tabù (tollerata per gli animali da allevamento). Il razzismo è uno spettro del passato da esorcizzare.

Diverse dalla nostra, abbiamo trascritto. Infatti la negritudine dei (pagina 32) Black Muslims americani, o il popolo eletto degli Ebrei, o gli Zulu che disprezzano e bastonano i Bantù non sono razzismo, secondo il S.C.L.. Il razzista è solo indoeuropeo occidentale, attenti a non sbagliare. A tacciare di razzismo Mandela, uno diventa razzista lui (e sono cavoli suoi!).
E ovvio che contro il razzismo della definizione S.C.L. tutti sono d'accordo: è troppo imbecille. L'unica difficoltà nel combatterlo sta nel fatto che non ha sostenitori. Ma se avete capito il trucco comprenderete come la circostanza sia irrilevante. Basta dare a intendere che i sostenitori ci siano per suscitare pubblico allarme nonché manifestazioni e cortei di solidarietà con le vittime di sì orripilante razzismo. Nessun problema per gli orientatori (orientati) di opinione pubblica, che -come s'è accennato-hanno licenza di appiccicare i loro mascheroni a chiunque ne fornisca il più labile appiglio, e qualcuno - magari diciottenne - che lo fornisca si finisce sempre per trovare.
Ma andiamo avanti. Qual è l'esempio per eccellenza di vittime del razzismo? Ma gli Ebrei, che diamine! Essi sarebbero anche la testimonianza vivente degli ORRORI del razzismo medesimo.
Beh, anche questa, come tutto nel S.C.L., è una mistificazione. Non che non sia vero che quel popolo è stato perseguitato in Europa per secoli, e anche recentemente nel Terzo Reich (pur trasformando la cosa in una colossale speculazione - ma questo è altro discorso). Ma è anche vero che i motivi di tali persecuzioni ricorrenti furono, notoriamente, tre, nessuno dei quali ha alcun riferimento coi pregiudizi razziali. Non vogliamo qui esaminare la fondatezza o meno di tali motivi: ci basta enunciarli, per verificare come con l'esecrato razzismo essi non abbiano nulla a che fare. Essi sono tre, in ordine cronologico:
Il primo religioso, e cioè l'accusa di aver ammazzato Gesù;
il secondo sociale, e cioè l'esercizio, dopo la diaspora, dell'usura;
il terzo politico, e cioè l'accusa di costituire una setta supernazionale, con una propria politica spesso in contrasto con quella delle nazioni di appartenenza, mirante al dominio finanziario del mondo.
Che cosa c'entrino questi col c.d. razzismo antisemita non si capisce proprio. Basti considerare come quasi tutti gli anti-ebrei siano regolarmente filoarabi, e gli Arabi siano molto più semiti degli Ebrei stessi, ai quali peraltro (a quelli originari) sono - come razza - strettamente affini.
Affermare quindi che chiunque dica o faccia qualcosa contro gli Ebrei sia un razzista (come da mascherone S.C.L.) è una palese stupidaggine.
La cosa non cambia aspetto a proposito dell'altra attuale cartina di tornasole adoperata dagli antirazzisti in s.p.e. per individuare e bollare i malvagi razzisti. Parlo dell'atteggiamento verso gli immigrati del Terzo Mondo, anche noti come vu comprà. Se qualcuno si dichiara preoccupato del fenomeno e ne chiede l'arginamento, ecco uscire da (pagina 33) tutti i buchi i «buoni», coi fazzoletti intrisi di lacrime, strillando a tutta canna «Dagli al razzista!», con il che il preoccupato viene additato al fiero sdegno dei benpensanti.
Trattandosi di S.C.L. è inutile dire che si tratta di altra mistificazione.
Gli argomenti (quelli seri), sia a favore che contro l'apertura all'immigrazione del Terzo Mondo non hanno infatti alcun rapporto con questioni razziali, tanto che si adattano perfettamente anche all'altra paventata invasione di gente dell'ex-Jugoslavia e delle zone europee della non meno ex U.R.S.S., che è ariana come noi, se non più.
Molti, tra cui il sottoscritto, ad esempio, pur avendo grande simpatia per il mondo islamico c rispetto per la sua cultura, sono nettamente contrari alla libera immigrazione di quei disperati, sia perché l'Italia non può certo permettersi altri dissennati assistenzialismi oltre i troppi già in atto, sia perché quegli infelici popoli non si aiutano sradicandoli e aggregandoli al triste casino in cui viviamo. Si potrebbero aiutare se ci emendassimo noi degli errori ed orrori della decolonizzazione (molto più gravi e sanguinosi di quelli del colonialismo) e ci adoperassimo per facilitare a loro in casa propria il raggiungimento di condizioni decenti di vita e di convivenza nel solco delle loro tradizioni, anziché delle scempiaggini mondialistiche liberatorie che li hanno ridotti alla fame.
Tale nostra convinzione si potrà condividere o meno, ma è certo che il razzismo c'entra come il cavolo a merenda.
Se esiste un razzismo veramente stolto e nefasto è quello di chi pretende di imporre a tutte le diverse genti, qualificandolo superiore, un tipo disumano e squallido di civilizzazione mercantile, di conio anglosassone-yankee, violentando e travolgendo ogni autentica tradizione e ogni peculiare forma di spiritualità. L'antirazzismo bigotto di prammatica, quello del Santo Catechismo Liberatorio, non è che uno degli strumenti di tale turpe disegno.
Non concediamogli nulla!

 

CORPORATIVISMO

 

7° CHE COS'E' IL CORPORATIVISMO? - IL CORPORATIVISMO E' L'ESALTAZIONE DEGLI EGOISMI DI CATEGORIA
Corollari: Il Corporativismo è conflittualità ed è superato dallo STATO SOCIALE. Il Corporativismo è una mascheratura del capitalismo.

Quale corporativismo? Non c'è neppur bisogno di dirlo: il Corporativismo secondo il Santo Catechismo Liberatorio. È una definizione che, grazie alla procedura che ho più volte illustrata, non ha nessun bisogno di attagliarsi a qualcosa di veramente esistito durante il deprecato regime. (PAGINA 34)
È il solito pupazzo di comodo in cui ficcare gli spilloni della dialettica democratica, dando poi per scontato senza il minimo tentativo di dimostrarlo che il Corporativismo del Ventennio non fosse altro che quello.
D'altronde, anche loro, gli Anti-fascisti, poveretti, dobbiamo capirli. Dal fondo dell'abisso economico e sociale in cui la loro "Repubblica democratica fondata sul lavoro" ha precipitato la sventurata nazione italiana, mettersi a denigrare il sistema economico e sociale veramente vigente negli anni trenta, con tanto di Lira facente aggio sull'oro, di finanza pubblica attiva, di indipendenza economica, di pace sociale, di disoccupazione inesistente, di rientro degli emigrati, eccetera eccetera, sarebbe veramente un'impresa disperata. E che, sono scemi?
Qualche anno addietro, alcuni incoscienti tra loro ci si sono provati, sotto forma di ECONOMIA ITALIANA FRA LE DUE GUERRE, mostra allestita, a Roma, al Colosseo. L'avete vista? Beh, ad onta di tutti i mezzucci e gli espedienti verbali denigratorii posti in opera, uno che guardasse alla sostanza e non agli aggettivi finiva che entrava democratico e usciva fascista, Dio ci salvi! Niente da fare: disegnare un paio di baffi, porri pelosi, occhi strabici e incisivi mancanti a una foto di Marilyn Monroe, per sostenere che fosse brutta è l'unico sistema sicuro. Se poi - non si sa mai - ci si aggiunge pure una bella legge per cui il solo affermare che la poverina non fosse priva di attrattive sia un delitto passibile di galera, il risultato è assicurato, non vi pare?
Marilyn buonanima faceva proprio schifo!
Però, quanto al Corporativismo, anche se superior stabat lupus, c'è qualcosa che non quadra.
Come la mettiamo, per esempio, col Totalitarismo (v. assioma n. 8)? Come poteva uno Stato accentratore, strapotente ed oppressivo favorire la prevaricazione da parte di interessi settoriali? Se uno è bulimico non può essere nel contempo anoressico, mi dispiace per il S.C.L.
Consultiamo, in cerca di lumi, il già citato dizionario postbellico: CORPORATIVISMO: Dottrina (1) politico-sindacale fondata sul superamento dei conflitti fra capitale e lavoro attraverso l'azione conciliativa o decisiva dello Stato, anche a costo dell'irrigidimento della società in caste chiuse. (Ugh!, n.d.a.).
Gran cosa, però, la libertà di pensiero donataci dalla Liberazione! Costringe brave persone che redigano un innocente dizionario ad aggiungere a una definizione non dispregiativa una coda del tutto cretina, per tema di incorrere in apologia e di vedersi sbarrato l'accesso alle scuole. Eh, via: come può la conciliazione dei conflitti sociali irrigidire la società in caste chiuse?
Ma insomma, che cavolo era questo Corporativismo? Conciliazione o prevaricazione? (PAGINA 35)
(1) Stiano attenti G. Devoto e G. Oli a definirlo dottrina. Potrebbero passare guai. Il Corporativismo era fascista, e il Fascismo era solo violenza, non dottrina! Vogliamo scherzare?
Vedo di dare una mano e, ad uso degli ignoranti veri (che apprezzo molto di più di quelli che ce fanno) cerco di diradare le nebbie intorno al nome corporazione, tra le quali volentieri si aggiravano gli intellettuali in servizio, ligi alla consegna di scivolare sul Corporativismo con qualche fugace battuta standard.
Nel Medioevo e nel Rinascimento c'erano le corporazioni, che erano sorte di confraternite, quasi ordini laici ai quali appartenevano, gerarchicamente organizzati, coloro che si dedicavano a una determinata arte. Forse irrigidivano un po' la società in caste chiuse, non lo nego, ma mettersi a riformarle oggi sarebbe un po' tardivo.
Tra le altre caratteristiche delle corporazioni di allora - che sarebbe fuori luogo enumerare - c'era quella dell'assoluta assenza di concetti classisti in senso marxiano.
Quando, il 25 Gennaio 1921, il movimento fascista si risolse a creare una propria struttura sindacale, la chiamò Confederazione delle Corporazioni Sindacali. Esse erano molto più sindacati che corporazioni (in senso storico) e si volle adottare quel nome solo per accentuarne il carattere non classista. Peraltro, questo risultava anche dal fatto che, tra le corporazioni primogenite, solo due su cinque (Industria e Gente di mare) erano di lavoratori subordinati, mentre le altre tre (Agricoltura, Commercio e Classi medie e intellettuali) erano miste, in quanto i coltivatori diretti vi confluivano coi braccianti, i piccoli esercenti coi commessi e i professionisti cogli impiegati.
Colla legge 563/1926 sull'ordinamento sindacale di diritto, le associazioni sindacali assunsero istituzionalmente l'articolazione a coppie contrapposte (Industriali-Lavoratori dell'industria; Commercianti-Lavoratori del commercio, ecc.), con la sola eccezione della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti. Va chiarito che si trattava istituzionalmente di una contrapposizione funzionale, non conflittuale, al punto che solo la coppia datoriale-lavoratrice aveva addirittura, nel suo ambito categoriale, potere legislativo (contratti collettivi con valore di legge, persino penale). Il nome corporazioni fu riesumato poco dopo, con legge 1131 dello stesso anno, con significato profondamente diverso, riunendosi nel Ministero delle Corporazioni nel (PAGINA 36) senso di rami produttivi, non di categorie) sia il Ministero del Lavoro che quelli economici. Infine con legge 15 Febbraio 1934, n. 136 venivano create e regolate le singole corporazioni. Erano veri organi dello Stato, con funzione sia di programmazione economica che di conciliazione nelle controversie collettive di lavoro, ed erano composte, per ogni ciclo produttivo, da rappresentanze paritetiche delle parti sindacali oltreché della conduzione politica dello Stato (PNF).
Loro espressione nazionale era il Consiglio Nazionale delle Corpora-zioni, sintesi della concezione unitaria e funzionale della produzione, poi (1939) confluito a formare quella Camera dei Fasci e delle Corporazioni che sostituì un'assemblea legislativa organica a quella indifferenziata della Camera dei Deputati.
Stando così - in breve - le cose in termini giuridici e storici, si vede bene come sia gli egoismi di categoria che l'irrigidimento in caste chiuse non vi abbiano nulla a che fare.
Allora, insomma, il Corporativismo che accidente era? Come risponde la cultura ufficiale all'imbarazzante quesito? Non risponde.
Il pasticcio diventa ancor più confuso se i lumi li andiamo a cercare nella Costituzione antifascista diciamo così vigente.
Lì troviamo infatti - non senza allibire - roba come la "partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, sociale ed economica del Paese" (art. 3); il lavoro come dovere sociale (art. 4 cpv.); il salario proporzionato al lavoro prestato e alle esigenze di vita (art. 36); il massimo di ore lavorative (ibìd.); i contratti collettivi validi erga omnes (art. 39); la programmazione economica (art. 41); la funzione sociale della proprietà (art. 42 cpv.); la bonifica agraria e fondiaria (art. 44); e perfino la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (art. 46)!
Evidente è il motivo dell'allibimento: basta confrontare tali dichiarazioni con i pilastri giuridici dell'ordinamento fascista in tutta la sua evoluzione storica, e cioè colla Carta del Lavoro (1927), colla L. 3-4-1926 sull'ordinamento sindacale di diritto, colla L. 5-2-1934 sulle corporazioni, colla legge 191-1-1939 sulla rappresentanza politica e persino coi Decreti del Duce nn 373 e 861 del 1944 sulla socializzazione delle imprese, per essere tentati di concludere che nella Costituzione democratica, sia pure più rozzo ed embrionale, ci sia mezzo Corporativismo!
Macché! Sembra soltanto.
Ci sono delle belle differenze, in forza delle quali tacciare la Costituzione di Corporativismo sarebbe ingiusto (e pure vilipendio, hai visto mai?).
La principale di esse è questa: le proclamazioni costituzionali sopra elencate sono state solennemente messe sulla carta e lì sono rimaste, come una fetta di mortadella dimenticata in frigo. Insomma, esse sono soltanto svolazzi decorativi, ectoplasmi giuridici o, se si preferisce, aria fritta. Non penserete mica (pagina 37) che la Repubblica fondata sul lavoro pensi di tradurle in pratica?! Ha ben altre gatte da pelare, la meschina, cui si aggiunge da qualche tempo quella di salvare le istituzioni. Proclamare tante belle cose e poi farle davvero non è affar suo. Troppo difficile. Non è per cattiveria: è perché proprio, con le idee ammuffite e la classe diri-gente che si ritrova, più che progettare nuove rapine fiscali non può.
Il Corporativismo (quello vero, non il pupazzo), consisteva invece proprio e soprattutto nel farle davvero, le cose proclamate, affrontando tutti i problemi di attuazione per tradurle in istituti operanti.
Si tratta, come vedete, più che di una differenza: di un abisso incolmabile. Dobbiamo quindi accontentarci del fatto che, oltreché democratica, la repubblica sia fondata sul lavoro. Vi pare poco?
Peccato che non si sa che significa. Probabilmente non significa niente, e questo conferisce alla proclamazione l'indubbio vantaggio di non richiedere faticose attuazioni. Vi sono forse repubbliche (o magari monarchie) fondate sull'ozio? O sul gioco, o sullo sport, o sul delitto, o sulla divina provvidenza?
In che cosa, di grazia, questa nostra Repubblica è più fondata sul lavoro di qualsiasi altro Stato passato o presente; ipotetico o reale? Mistero. Dev'essere, forse, perché vi si fa più retorica del lavoro (fino alla nausea) che altrove! E' certamente vero, ma per parlare di fondamento mi sembra pochino!
Un momento: c'è l'articolo 40: il di-ritto di sciopero! Quello non è rima-sto inattuato: è attuatissimo. Inattuate sono solo le leggi che lo regolano, può sogghignare uno proprio incontentabile.
Nel commento all'assioma S.C.L. n. 6 mi ero riservato di dirne a parte, di quella conquista democratica; e sciolgo la riserva.
Non c'è dubbio che nel Corporativismo, sia quello vero che il pupazzo, il diritto di sciopero non c'era, e anche questa è una bella differenza. Del resto, anche stando al citato dizionario, coda a parte, in un sistema in cui i conflitti fra capitale e lavoro si superano con l'azione conciliativa o decisiva dello Stato, lo sciopero a che serve?
Nella Repubblica-fondata-sul-lavoro invece serve, perché i conflitti, lei, non li supera. Non supera niente: preferisce essere superata. Ognuno ha i suoi gusti.
Sembra però che essa sia fondata solo sul lavoro subordinato. Infatti un professionista che non fa il lavoro per cui s'è impegnato viene radiato dall'albo; un imprenditore che non si dà da fare fallisce; un artigiano che non esegue il lavoro finisce sul lastrico; un contadino che non coltiva raccoglie solo erbacce. I lavoratori subordinati, no. Loro possono astenersi premeditatamente dal lavoro e a loro non succede niente, anzi conseguono miglioramenti.
Ma il lavoro, non lo tutela la Repubblica?
Beh, lo tutela così: permettendo ai lavoratori subordinati di tutelarsi da (pagina 38) sé (e ai sindacalisti di camparci sopra), esonerandoli all'uopo dall'osservanza dell'art. 2094 del codice civile e 629 del codice penale. Lo scioperante in effetti, minacciando e infliggendo al suo datore di lavoro un danno ingiusto (ché tale è il rifiuto della prestazione alla quale il primo si è impegnato), lo costringe a concedergli vantaggi.
Lo sciopero, infatti, è nato fuori del diritto. E' nato come autodifesa dei lavoratori coalizzati contro la legge bronzea dei salari, che, in regime paleo-capitalistico, esprimeva la tendenza ineluttabile (Marx) alla riduzione dei medesimi oltre il limite del tollerabile. Il datore di lavoro avrebbe potuto legittimamente licenziare gli scioperanti, ma - se essi erano tutti o quasi e se i loro sindacati ponevano in atto sistemi persuasivi (anch'essi illegali) per scoraggiare i krumiri - non poteva praticamente farlo ed era costretto a cedere. Il sistema non era scevro di inconvenienti. A parte la frequente degenerazione degli scioperi in tumulti, violenze private, incendi, sabotaggi e ferimenti, essi erano certamente dannosi per l'economia e distruttivi di ricchezza.
Anche dal punto di vista equitativo, essi non garantivano affatto la più alta giustizia sociale, né lo si poteva pretendere da un metodo per decidere le controversie basato non sulla ragione ma sulla forza. Si potrebbe addirittura osservare che, di regola, uno sciopero ingiusto ha successo e uno giusto fallisce. E' chiaro che solo lavoratori abbastanza ben pagati possono disporre di risparmi tali da permettersi di rinunziare al salario per un tempo maggiore di quello in cui l'imprenditore possa rinunziare alla produzione. Non è così per dipendenti veramente sotto retribuiti e quindi privi di risparmi, per i quali anche pochi giorni di sciopero significano la fame, mentre il padrone ricco e sfruttatore non ha difficoltà a prendersi qualche giorno di vacanza.
E gli inconvenienti degli scioperi non sono solo questi. Tuttavia, mancando negli ordinamenti giuridici dell'ottocento un mezzo legale per risolvere secondo giustizia le controversie collettive di lavoro, lo sciopero di-struttivo e illegale era l'unico mezzo a disposizione dei prestatori d'opera. Analogamente, in tempi assai più remoti, gli uomini risolvevano qualsiasi controversia a colpi di clava, anche se ciò presentava l'inconveniente che non vinceva chi aveva ragione ma chi era più bravo a tirar mazzate. Poi venne la civiltà, e con essa le leggi e i giudici, cui si poteva ricorrere onde le controversie trovassero soluzione più giusta e meno cruenta.
Il sistema corporativo realizzò semplicemente un simile sistema civile anche per le controversie di lavoro. La Repubblica fondata su quest'ultimo restaurò invece il sistema delle mazzate, per giunta facendo di esse un sacro diritto. E brava Repubblica!
Ma c'è di peggio (nei nostri tempi di progresso, c'è sempre di peggio). Oggi, quelli che scioperano sono (pagina 39) quasi sempre pubblici dipendenti, la cui mercede è fissata con legge dal Popolo Sovrano, attraverso il Parlamento che lo rappresenta. Il ricatto dello sciopero è quindi usato contro le leggi e il Parlamento, alla faccia dell'art. 54, 1° comma della Costituzione. Per aggiungere al tutto un pizzico di moralità, si consideri che il danno prodotto dallo sciopero di pubblici servizi non è arrecato alla pubblica controparte, bensì alla generalità degli altri innocenti cittadini.
E poi il S.C.L. dice che gli egoismi di categoria sono caratteristica del Corporativismo. È o non è il premio Nobel della faccia tosta?
Ma l'ordine corporativo - per chi non lo sappia e desideri saperlo non era soltanto (e non sarebbe stato poco!) la soluzione giuridicamente equa ed economicamente migliore delle controversie collettive di lavoro.
Era soprattutto la realizzazione dello Stato organico attraverso il riconoscimento di funzioni pubbliche ai corpi intermedi. Era la concezione unitaria della produzione, quale funzione della politica nazionale. Era l'utilizzazione razionale e coordinata di tutte le potenzialità e le energie che oggi si annullano in una conflittualità sterile. Era lo strumento per la partecipazione permanente e dignitosa del popolo alla vita dello Stato, non attraverso le finzioni e le frodi del suffragio universale indifferenziato, ma in ragione del ruolo effettivo svolto dai singoli e dai gruppi ai fini del superiore bene comune. Era in fine, coi provvedimenti della R.S.I., la liquidazione della tirannia delle cose sugli uomini, marchio d'infamia di tutto il tempo moderno (Rerum novarum!).
Era una cosa seria, coerente, impegnativa, ancora in via di totale attuazione, di collaudo e di perfezionamento quando la forza bruta di Mammona fu scatenata a distruggerlo. allo scopo perfettamente raggiunto di trasformare la nostra Patria in colonia di sfruttamento per i Grandi Usurai della Terra.
E oggi ancora, con la genialità tutta italiana delle sue soluzioni, la sua inesausta duttilità e il suo poderoso bagaglio di esperienze vissute, proietta gli unici bagliori di speranza sul cupo orizzonte del fallimento del sistema che ha degradato l'Italia.

 

TOTALIARISMO

 

Parlando del Razzismo avevo cominciato col rilevare una caratteristica comune di tutto il culturame liberatorio, e cioè la fabbrica dei mascheroni. Nel polemizzare coi propri avversari, cioè, quelli che hanno fatto del Santo Catechismo Liberatorio il loro sacro testo cominciano innanzi tutto col togliere ai secondi la facoltà di parola.
Ma come? - potrebbe osservare qualcuno. Per poter polemizzare, occorre una tesi contrapposta; sennò (pagina 40) che polemica è? Giusto. Infatti, la tesi contrapposta ce l'hanno regolarmente anche gli apostoli del neo-vangelo democratico, solo che non la lasciano formulare agli avversari: se la formulano da sé. È molto più comodo.
L'antifascismo, per esempio. sembrerebbe che fosse l'opposizione al fascismo. Macché! È semplicemente l'opposizione ad una cosa immaginaria inventata dagli antifascisti e che loro hanno deciso di chiamare Fascismo (pardon: fascismo). La cosa è, ovviamente, stupida e repellente quant'altre mai. Che un Fascismo sia esistito davvero, che sia stato condiviso dalla quasi totalità degli Italiani e anche da molti stranieri, comprese persone di alto ingegno e cultura, che sia stato espresso in una vastissima letteratura e in peculiari realizzazioni politico-sociali dalle quali non sarebbe difficile desumere quale ne fosse l'effettivo contenuto, non ha per costoro alcuna importanza. Il Fascismo dev'essere esclusivamente il grottesco mascherone confezionato nei rozzi laboratori del S.C.L., anzi - visto che sono loro a fare le leggi - l'hanno stabilito addirittura per legge (penale). E' inutile aggiungere che contro un fascismo così bestiale e ridicolo la polemica è quanto mai facile, e ne ho già dato qualche saggio.
La stessa regola va tenuta ben presente per affrontare il tema TOTALITARISMO.
Contro il totalitarismo ce l'hanno tutti, persino i Missini, che almirantianamente lo ripudiano. Tutti lo aborriscono addirittura. Sua Santità ci ha addirittura insegnato (Centesimus annus) che il totalitarismo è "collegato al militarismo e al nazionalismo esasperati. In che modo sia collegato non lo precisa: forse, gli sembra ovvio.
Bene: fu proprio studiando quell'enciclica centenaria che il sottoscritto, cui quel collegamento non sembra ovvio per niente, ha fatto il seguente esperimento, che suggerisce anche ai lettori:
Mi sono munito di piccolo blocknotes e ho rivolto due domande a cento persone qualunque, sforzandomi di sceglierle di ambiente, età, sesso e levatura culturale il più possibile assortiti. Le ho poste con noncuranza, nel discorso, senza l'aria di fare un'inchiesta.
La prima era: "Lei approva il totalitarismo?"
    Risultato: 91 NO; 5 DIPENDE; 3 NON SO; I SI. Insomma, un autentico plebiscito anti-totalitario.
La seconda domanda: (ahi, ahi!) era: "Secondo Lei: che cos'è il totalitarismo? Le risposte sono state un po' più variegate.
   49 hanno risposto, più o meno: l'obbligo di pensare tutti nello stesso modo.
   28 hanno invece dichiarato che sarebbe l'obbligo per tutti di obbedire al governo.
   16 hanno identificato il totalitarismo con la dittatura.
    4 hanno risposto che non lo sapevano (si rimarchi che tre di essi avevano risposto NO alla prima domanda).
    3 hanno cercato solo di essere spiritosi. (pagina 41)
È facile trarre due ferme conclusioni dai risultati della mia piccola inchiesta alla buona:
Prima: che l'opinione pubblica rigetta il totalitarismo.
Seconda: che l'opinione pubblica non ha la più pallida idea di che cosa sia il totalitarismo.
Le due conclusioni sembrano contraddittorie. Come fa a rigettarlo se non sa che cosa sia? Non sono invece che la dimostrazione della efficacia dell'effetto mascherone di cui dicevo prima.
Devo confessare che mi trovo io stesso in qualche difficoltà nel formulare in una frase il settimo assioma del Santo Catechismo Liberatorio attinente, appunto, al totalitarismo. Esso è infatti considerato sinistro, raccapricciante, repellente, ma indefinito. E' un po' come il thrilling alla Hitchkok, come l'horror lasciato immaginare. Cercherò comunque di fare uno sforzo di sintesi.
7- CHE COSE' IL TOTALITARISMO? IL TOTALITARISMO È LA TIRANNIA DELLO STATO STRAPOTENTE ED OPPRESSIVO, CHE REPRIME OGNI LIBERO PENSIERO E INIZIATIVA PRETENDENDO L'ADEGUAMENTO DI TUTTI E DI TUTTO ALLA PROPRIA VOLONTÀ
Corollari: Totalitario è il fascismo e anche il comunismo. Il totalitarismo è il contrario della democrazia. Esso appiattisce e mortifica gli ingegni e le personalità.

Leggo peraltro nel mio dizionario (Devoto & Oli - Euroclub - Milano, 1980) questa definizione di totalitario (Stato): Quello in cui, nel ripudio più o meno dichiarato delle istituzioni proprie dello Stato liberale e demo-cratico si attua l'assoluta concentra-zione del potere nelle mani di un gruppo dominante (o di un solo Partito) che assume il controllo di tutti i settori della vita di una nazione. Come vedete, si allineano al S.C.L. anche i dizionari e il gioco è fatto. Si tratta del solito gioco truccato, naturalmente.
Le due definizioni sostanzialmente concordi che precedono si attagliano perfettamente, guarda caso, all'ex Stato bolscevico. Non mancano infatti nella pubblicistica demo-plutocratica frequenti accostamenti tra bolscevismo e Fascismo. Papa Woityla, addirittura fa di quello comunista-sovietico - espressione esasperata dello statalismo - l'esempio tipico di Stato totalitario. Allora io invito il lettore a porsi tre domande:
1) Come mai gli Stati totalitari italiano e tedesco furono sempre strenui e dichiarati avversari ideologici, politici e addirittura militari del totalitario Comunismo, sin da quando erano in embrione nei rispettivi movimenti, mentre al contrario i circoli e gli Stati democratici, liberali e capitalistici ne furono sempre sostenitori ed alleati, partendo dai finanziamenti a Lenin per culminare nella senile passione di Roosevelt per Stalin esplosa clamorosamente a Yalta?
2) Come mai lo Stato totalitario fascista fu sempre sostenitore dell'iniziativa privata e contrario alle nazionalizzazioni e relative burocratizzazioni, mentre quello democratico (pagina 42) che lo seguì, a parziale imitazione di quello sovietico, fu caratterizzato dalla statizzazione addirittura dell'energia elettrica e della sanità, nonché dalla irizzazione selvaggia dell'industria e del terziario e dalla contrapposizione alle economie private del pozzo senza fondo della economia pubblica?
3) Come mai lo Stato democratico attuale ha dato luogo a condizionamenti generalizzati. tracotanti e capillari delle attività private da parte del potere politico, incomparabilmente maggiori di quelle riscontrabili nello Stato totalitario che lo precedette, tanto da poter degenerare in tangentocrazia?
Mi sembra invero che. quanto a gruppo dominante che assume il controllo di tutti i settori della vita della nazione (per dirla col dizionario), mamma Democrazia il Fascismo lo surclassi addirittura. Che sia totalitaria anche lei?
La risposta a quella e ad infinite altre domande si può trovare soltanto nel significato che al termine Stato totalitario davano Mussolini e i fascisti, che poi sarebbe quello che si usa chiamare interpretazione autentica dell'espressione. Esso, come al solito, non ha nulla a che fare con quello attribuitogli dal S.C.L., anzi è esattamente l'opposto. Non intendo certo mettermi a scrivere un trattato, ma solo attenermi alle linee fonda-mentali della concezione totalitaria dello Stato (quella vera; non il mascherone), quali emergono dalle proclamazioni più autorevoli e ancor più dalla legislazione che le attuò.
Cominciamo col mettere bene in chiaro che l'aggettivo totalitario. riferito allo Stato, fu esclusivamente italiano e fascista, restando del tutto estraneo alla terminologia sia nazionalsocialista che bolscevica. Gli Italiani e fascisti sono quindi gli unici che abbiano titolo per enunciare di che si trattasse; non gli altri e tanto meno gli antifascisti.
Il principio-base fu il seguente: tutte le funzioni da chiunque esercitate che abbiano rilevanza per un interesse nazionale hanno natura pubblica. e vanno quindi svolte nel rispetto di tale natura e finalità. La conseguenza NON È che tali funzioni vadano esercitate dalle strutture burocratiche dello Stato (come è nel Comunismo e, in minor misura, nella democrazia a suffragio universale), sostituendosi esse al privato cittadino, bensì che ogni cittadino attivo, sia singolo che nelle spontanee aggregazioni di cui faccia parte, debba essere consapevole della funzione pubblica della sua attività e comportarsi di conseguenza.
Se si concepisce un interesse pubblico rappresentato dall'apparato statale e un interesse privato rappresentato dai cittadini singoli o variamente raggruppati (società, aziende ecc.), si arriva necessariamente alla necessità di una coercizione da esercitarsi da parte del sistema politico-burocratico pubblico sulle egoistiche e molteplici volontà private (coercizione minimale nello Stato liberale e massimale in quello collettivista), allo scopo di garantire il contemperamento tra i due interessi. (pagina 43)
Nella concezione totalitaria (o organica), tale contemperamento si colloca invece nelle singole coscienze, in quanto il privato individuo agisce contemporaneamente uti singulus e uti cives. Ogni persona attiva è con-temporaneamente Privato e Stato, e in questo senso si parlò di Stato della totalità (totalitario). Non sono concetti astratti. Si pensi a come ogni persona sia e si senta contemporaneamente singolo e membro della famiglia. come tale tenuto anche senza coercizione a contemperare il proprio interesse individuale con quello familiare. Si pensi come neppure una squadra di calcio possa funzionare se ognuno dei giocatori non senta come proprio non solo l'interesse individuale ad emergere sugli altri. ma soprattutto quello della squadra a vincere.
Ora, è chiaro che questo senso di essere Stato, questo gioco di squadra da parte del singolo cittadino e delle singole realtà associative può svilupparsi solo in seguito ad una paziente educazione, ed esige nella fase iniziale un sistema di controlli, destinati ad allentarsi progressiva-mente man mano che il senso dello Stato come totalità entri a far parte del patrimonio morale e psicologico dei singoli. E non dimentichiamoci che il fascismo storico ebbe solo una prima fase (dominata per giunta dalla presenza di un Capo carismatico), per cui anche il suo totalitarismo (come la democrazia corporativa che gli era connessa) non fecero in tempo a liberarsi delle "protesi di controllo" prima che piombassero i masticatori di chewing-gum e di vecchie fregnacce a fracassare tutto all'impazzata. Abbiamo conosciuto pertanto solo un totalitarismo in fieri, non uno funzionante appieno. Ma la sua fisionomia era ugualmente ben chiara.
Lo Stato totalitario non si sovrappone alla nazione. È la nazione stessa che diventa Stato, allorché tutte le sue valenze comunitarie, individuali, di gruppo, di categoria, si esaltano, si armonizzano e si organizzano a formare lo Stato. Ed ecco la funzione sociale della proprietà privata; ecco l'iniziativa privata in campo produttivo diventare funzione pubblica (Dich. V11 C.d.L.) anziché soccombere davanti all'iniziativa pubblica (nazionalizzazioni) ecco i sindacati, nati per la tutela di interessi settoriali. divenire rappresentanti della funzione pubblica del lavoro (Dich.11 C.d.L.) e come tali titolari addirittura di potere legislativo (i C.C.L. con valore di legge); ecco divenire funzione pubblica -in quanto di interesse nazionale- fin l'attività dei genitori che educano i figli (senza che sia lo Stato burocratico ad arrogarsi tale funzione come nel sistema bolscevico). Ecco infine la rappresentanza della nazione negli organi legislativi realizzarsi in modo organico attraverso gli esponenti di tutte le funzioni che compongono la nazione-stato, anziché col sistema rozzo e illusorio del suffragio universale indifferenziato, sommatoria di egoismi che da luogo ad una volontà generale del tutto presupposta e fittizia.
Perché possa esservi collaborazione (pagina 44) occorre, è vero, una pluralità di agenti ed è persino utile una pluralità di opinioni, ma è assolutamente indispensabile una unicità di fini. Orbene, in sistema totalitario tale fine pubblico (e quindi comune) viene ricercato in tutte le persone singole o associate, a fianco dei pur legittimi fini particolari di ciascuna, e lo sforzo è quello di educare, di abituare il popolo a considerarlo e svilupparlo in sé, affinché lo Stato sia in tutti e non sopra a tutti.
I vecchi ricorderanno che, negli anni trenta. per indicare Malia con un pronome la gente comune diceva noi, oggi dice loro (e cioè il governo).
Si potrebbe anche dire che il totalitarismo è una democrazia, solo che è una partecipazione popolare intesa come dovere e come funzione, non come diritto (sulla carta).
Persino l'impresa socializzata della R.S.I. è concepibile soltanto a patto che imprenditori e lavoratori abbiano un fine comune (efficienza produttiva ed economica della nazione, di cui l'impresa è un reparto), prevalente su quello particolare di ciascuno, si da trasformare il loro rapporto da quello capitalistico tra parti contrapposte a quello puramente gerarchico e funzionale, piena e intera realizzazione della collaborazione corporativa.
Sono soltanto brevi cenni, né lo spazio permette altro. Ma valgono non foss'altro a delineare che cosa sia veramente il totalitarismo secondo quelli che l'hanno inventato e in parte realizzato, anziché secondo le scimmie urlatrici del S.C.L.
Dovremo forse cambiargli nome, dato che il nome originale ce l'hanno sputtanato. Ma la sostanza resta quella. Una sostanza che potrebbe essere preziosa per l'avvenire, sempreché questa umanità liberata e rincoglionita abbia un avvenire.

 

GUERRA E PACE

 

Continuiamo a sfogliare il Santo Catechismo Liberatorio:
9°. CHE COS'È LA GUERRA? LA GUERRA È VIOLENZA E BARBARIE INUTILE.
Corollari: L'Italia democratica la ripudia (è scritto papale papale nella Costituzione). Il Fascismo invece l'amava, appunto perché violento e barbaro. Le forze armate sono tollerate soltanto per difesa.

Ma che cuori teneri sono i democratici! Quanto miti e nobili sono le loro anime! Forse deve attribuirsi solo al mio ributtante cinismo se ricaccio indietro le lacrime di commozione e cerco di vedere un po' in fondo anche al nono assioma del S.C.L. O non è forse invece che quelli come me non portano anelli al naso? Giudichi il lettore.
Metto subito le carte in tavola; è mia convinzione che anche il pacifismo sia una frode, anzi che di tutte le ipocrisie e le scempiaggini che (pagina 45) compongono il prefato catechismo sia la più stucchevole.
Ho il sospetto che gli autorevoli costituenti del 47, quelli che ripudiavano, non riflettessero sul fatto che, se non fosse stato per una guerra (e che guerra!), essi non sarebbero stati né autorevoli né tampoco costituenti, e in quell'aula avrebbe pacificamente seduto la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, a legiferare in nome di Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d'Italia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia. Non rifletterono neppure, i Soloni della repubblica, che quest'ultima nasceva -per unanime proclamazione- dalla resistenza. Beh, che era la resistenza: pace? Oppure era (o pretendeva di essere) guerra, tanto che si auto-irrorò a pioggia di medaglie d'oro al valor (orrore!) militare?
Ed ecco, pronta, la loro risposta: la guerra giusta, e cioè difensiva, è ammessa, anzi meritoria. È quella ingiusta (aggressiva) che va ripudiata come delitto immane. ECCOLA LA PATACCA! E' ben noto, infatti che da quale delle parti in conflitto una guerra fosse giusta e difensiva lo decidono quelli che la vincono. Ne consegue che tale concezione falsamente manichea, non solo incrementa le guerre anziché limitarle, ma soprattutto legittima i vincitori a comportamenti ignobili verso i vinti. Al grido di pace, pace, naturalmente.
Il cranio di qualsiasi vincitore, per feroce che sia stato, non si corona più d'alloro, bensì di ramoscelli d'ulivo, e il suo uccello non è più l'aquila ma una colomba (bianca). Più grosso è il grisbì e più si diventa pacifisti. Ricordate il bla-bla-bla del dopo-Versailles e come somigliava a quello del dopo-Yalta? (pagina 46)
Va da sé che, perché una truffa riesca, ci vuole un marpione da un lato e un fesso dall'altro. Per loro fortuna, in questi tempi illuminati i fessi e quelli che ci fanno sovrabbondano e quindi il pacifismo impera.
L'affare del Vietnam assurge a valore emblematico. Quando gli U.S.A. per loro coliche interne decisero di fare una figuraccia in quel paese asiatico, in cui avrebbero potuto stravincere, ecco moltiplicarsi come per incanto nella stessa America e nell'accessorio mondo occidentale cortei e tumulti di pacifisti contro l'"aggressione imperialistica al popolo vietnamita" e per la denunzia delle atrocità innominabili commesse dagli Yankees (di contro alla dolcezza, alla civiltà e all'eroismo dei Viëtkong). Insomma, se la si voleva perdere, la guerra doveva essere qualificata come ingiusta, a costo di vomitarsi addosso! Sappiamo bene che, se invece - putacaso - URSS e Cina avessero cominciato a farsi la guerra tra loro (c'è mancato un pelo!) e avessero abbandonato Ho Chi Minh al proprio destino, con conseguente "liberazione" di Hanoi da parte dei Sud-vietnamiti e dei loro patroni, i Vietkong avrebbero avuto "quel che si meritavano e per la loro inqualificabile aggressione e per la loro ferocia" e sarebbero stati massacrati, processati, incarcerati e coperti d'infamia, tra il plauso di tutti i benpensanti.
Non parliamo poi di quell'altro orrore del pacifismo che sono le guerre propinate come atti di polizia internazionale contro i cattivi, avallate (con rammarico, s'intende) da quella costosa prostituta che è l'O.N.U., nobile progenie della wilsoniana Società delle Nazioni.
Sta di fatto che, da quando i virtuosi vincitori del '45 decretarono filantropicamente la messa al bando perpetua delle guerre, il mondo non è stato che un fitto e ininterrotto lampeggiare di guerre, dichiarate e non dichiarate. Soprattutto quelle del secondo tipo, che sono le peggiori perché nessuna convenzione internazionale (per quel che valgano) ne assicura un minimo di decente correttezza. Massacri, genocidi, distruzioni, atrocità, sofferenze indicibili di innocenti non fanno più nemmeno notizia, ammenoché non servano per criminalizzare qualche vinto a beneficio dell'establishment usurario, perché allora - sull'esempio insuperato dei virtuosi vincitori sopra ricordati - vengono invece strombazzate, gonfiate o magari inventate di sana pianta (tanto chi va a controllare?).
Insomma, se il solenne bando delle guerre e il sottofondo di nenia pacifista non limitano affatto le guerre, hanno in compenso l'effetto di svincolarle da ogni legge di civiltà, di correttezza e di decenza e di renderle non più soltanto causa di lutti e di distruzione di beni, ma anche di infamie ben peggiori.
Siamo seri, dico io. Che in guerra ci si fa male e lo sanno tutti, anche quelli cattivi come me. che non l'hanno vista al cinema o in TV ma l'hanno fatta. Che la guerra porti lutti, distruzioni e sofferenze non l'hanno scoperto i pacifisti: si sapeva fin dalla preistoria. Ma ripudiarla "come mezzo (pagina 47) di risoluzione delle controversie internazionali", per dirla con gli austeri Costituenti è vano e pericoloso. Vano come scrivere sui muri "Abbasso il torcicollo". Pericoloso per gli immancabili effetti secondari. Finisce che si diventa come i governanti italiani da allora in poi, che non portarono più bretelle per essere più svelti a calarsi i calzoni in ogni ipotesi e circostanza interna o estera. Finisce che si tengono le forze armate a stecchetto, si armano coi rifiuti di magazzino altrui e si addestrano con l'ozio in caserma e i discorsi lacrimosi, come si fa da noi. Ehi, anime nobili che chiamate pudicamente della difesa il ministero della guerra, lo sapete o no che la guerra difensiva è più impegnativa di quella offensiva? Lo sapete che il luogo e il momento propizio lo sceglie chi aggredisce? Lo sapete che per attaccare bisogna prepararsi alla bisogna, ma per difendersi efficacemente occorre essere preparati sempre?
Scriveva il poeta Trilussa: «... come vòi - che s'improvisi un popolo d'eroi - dov'hanno predicato li coniji?». Il che sarebbe come dire si vis pacem para bellum, no?
Poi, vedete, quelli di guerra sono tempi duri, d'accordo. Ma mi piace, fra tanti discorsi da sacrestia laica, dire un'eresia. E se i tempi duri facessero bene alla salute dei popoli e quelli molli li facessero capponi? Datevi un po' un'occhiata in giro, tra i resti di quello che fu il popolo italiano, dopo quasi cinquant'anni di pace, di sicurezza, di benessere e di diritto di tutti a tutto. Ora che i nodi di quella brutta sbornia vengono al pettine, si va a tirar giù dalla soffitta le sopite virtù della stirpe per affrontare i tempi cupi in arrivo e che si trova? Si trova che quelle virtù, altro che sopite! Sono rinsecchite, polverulente, rose dai topi, inservibili, come i gambali del bisnonno artigliere nel 15-18.
Ma lasciamo perdere e torniamo all'austero ripudio della Co.. L'art. 11 contiene la rinuncia definitiva a risolvere con la guerra le controversie internazionali. Insomma, oltre ad essere democratica e fondata sul lavoro, la repubblica è costituzionalmente imbelle. Sorge però il problema di un modo serio e alternativo per risolverle, quelle controversie, tale non essendo di certo la patetica espressione di conformismo con la quale quell'articolo prosegue.
È tempo, mi sembra, di fare un discorso da adulti. Ci fu - si dice- un'epoca lontana in cui qualsiasi controversia, anche privata, si sbrogliava a suon di mazzate. Poi, arrivarono, come accennammo, la civiltà e il diritto, con cui furono introdotti appositi giudici, che decidevano sulla ragione e sul torto, e farsi giustizia da sé fu severamente vietato (dell'eccezione costituita dal diritto di sciopero abbiamo già detto). Ottima cosa, senza dubbio, ma poteva e può funzionare a due rigorose condizioni:
Prima: che i giudici non abbiano interesse in causa, che siano imparziali, super partes; (pagina 48)
seconda: che dispongano di una polizia (mano forte, si diceva ai primi del secolo scorso) più potente di qualsiasi parte litigante, sì da potere imporre a chicchessia il rispetto delle loro decisioni.
In assenza di tali condizioni, la giustizia è solo un imbroglio e una buffonata, d'accordo?
Ed è infatti un imbroglio e una buffonata la giustizia internazionale, dato che sia il primo che il secondo requisito vi mancano del tutto. C'è qualcuno che ha qualche dubbio in proposito?
A parte il diritto di veto (una vera perla, quello!), ve li immaginate i Caschi Blu che impongono il rispetto di una decisione dell'O.N.U. agli U.S.A.? Anche a un semplice Israele o Serbia? Non ridete che c'è piuttosto da piangere.
E allora le questioni internazionali come le risolviamo? A pari e caffo?
Tentare tutte le vie diplomatiche, anche quella dell'arbitrato, sta bene. Adibire tutta la buona volontà e la comprensione per evitare il peggio, sta bene. Ma qualsiasi rivendicazione, fosse anche la più giusta, troverà solo il diniego più sprezzante se la controparte saprà da principio che oltre la vibrata protesta non possiamo comunque andare. Il pacifismo serve solo per uso esterno, come quello della mamma di tutti i pacifisti, la compianta U.R.S.S., che per avere il carro armato facile era tristemente nota.
Non nego che fare la guerra, tanto più con lo schifo che l'ha ridotta il progresso, sia altamente sconsigliabile. Ma essere in grado di farla è purtroppo indispensabile. Voglio dire che occorre possedere, e ben lubrificato ed efficiente, un potenziale militare in grado di far passare a chiunque (e dico chiunque) la voglia di fare il bullo. E di quel potenziale, si voglia o no, fanno parte integrante i vituperati valori guerrieri. «Il fucile vale il cuore che c'è dietro», diceva l'eroe Sioux Cavallo Pazzo. Capito, giuggioloni?
Può procurarselo, l'Italia, quel potenziale? No, ma lo potrebbe l'Europa unita.
Non quella di Maastricht, ossia delle borse sonanti, chiappe tremanti. L'altra: quella che abbiamo in cuore.

 

COLONIALISMO

 

Non mi illudo, giunto a questa decima ed ultima puntata, di aver redatto un manuale completo di disinfestazione dalle turpi corbellerie che compongono la cultura liberatoria, e questo non tanto perché di angolini da ripulire ne restano sempre, quanto perchè i miei argo¬menti non potranno owiamente avere alcun effetto su quel deteriore tipo di sordi che sono quelli che -per loro non rispettabili motivi- non vogliono sentire.
Nondimeno, dato che tra i nostri lettori tale volontaria sordità non (pagina 49) alligna, spero di aver compiuto un lavoro non del tutto inutile per dissuadere quelli tra loro che fossero talvolta tentati di fare qualche parziale concessione al S.C.L., inducendoli ad astenersene con rigore.
Il fatto è che, finché non si getteranno accuratamente nella pattumiera tutti i dieci articoli di fede che io tratto e mal-tratto in queste pagine, l'Italia e l'Europa intera continueranno a nuotare in tondo nella pozzanghera sempre più piccola concessa loro dallo imperium Mammonae iniquitatis. È pertanto indispensabile che cominciamo a farla noi, con ringhioso puntiglio, la sacrosanta raschiatura, addestrandoci a ricacciare nella mollaccia fetente ogni sciagurato che ne affiori a gracidare quelle rituali panzane, anche se non vi sarà forse per noi, come per Dante nella palude Stigia, un Virgilio ad abbracciarci "...alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse!".
Con questo spirito, passiamo quindi all'ultimo assioma.
10 - CHE COS 'È IL COLONIALISMO? IL COLONIALISMO ( alias IMPERIALISMO) È LA SCHIAVIZZAZIONE E SFRUTTAMENTO CHE GLI EUROPEI PERPETRARONO AI DANNI DI POPOLAZIONI AFRICANE O ASIATICHE. SOFFOCANDONE L'ANELITO DI LIBERTÀ
Corollari: La decolonizzazione è stata una delle maggiori glorie del nuovo ordine liberatorio. I popoli ex-coloniali liberati dal giogo si stanno democraticamente sviluppando. Gli Europei devono scontare le proprie colpe fornendo loro aiuti di ogni genere e astenendosi da ogni ingerenza.

Se c'è una cosa che vela di qualche nube di dubbio la sostanziale fiducia che nutro nell'intelligenza del popolo italiano è la passiva acquiescenza con cui si è bevuto il S.C.L., e in particolare le patetiche e moralistiche lezioni contro il colonialismo, impartitegli dagli Americani e (attraverso le cosiddette sinistre) dai Sovietici. Non c'è dubbio purtroppo che, andando per micchi nel Bel Paese, costoro ne abbiano trovati a iosa.
La libidine di servilismo (espressione di V.E. Orlando nel 1947) spiega qualcosa ma non tutto. L'autentico masochismo antinazionale che pervase i nuovi (?) governanti pur di fare il contrario del Fascismo (ricordate il regalo di Rodi e del Dodecaneso fatto dal lugubre De Gasperi alla Grecia che non li aveva mai pretesi nè posseduti?) spiega qualcosa, ma non tutto. Non spiega la mancanza di reazione, l'assenza di amor proprio, l'amnesia endemica, l'autolesionismo ebete da parte della stragrande maggioranza del popolo. Si deve pensare che lo scempio dell'onore nazionale perpetrato nel modo più stolto l'otto settembre 1943 avesse sortito sulle masse un effetto-rimbambimento paralizzante non ancora cessato. Come, altrimenti, i nostri connazionali, che passano per furbi, avrebbero potuto lasciarsi beffare da una mistificazione così grossolana, non si capirebbe. (pagina 50)
Però loro, gli Americani, siamo giusti, colonialisti non sono mai stati. A ben vedere, infatti, tipicamente colonialista fu l'atteggiamento degli Europei (Spagnoli, Francesi, Inglesi) che sbarcarono e s'istallarono nei territori degli attuali U.S.A., nel senso che essi pretesero di farla da padroni in molte zone di una terra già abitata da popolazioni di altre razze, dotate di una tecnologia certamente inferiore alla loro, ma di civiltà elevatissima spiritualmente nonché di grande dignità e senso dell'onore. Convinti (con superbia tipicamente cristiana) della loro superiorità, con quelle popolazioni gli Europei del XVII e XVIII secolo ebbero rapporti talora buoni, talora discreti, talora cattivi o pessimi. Spesso cercarono la loro alleanza per combattere altri bianchi loro concorrenti (come quella Francesi-Uroni, Britannici-Delaware ecc.). Talvolta anche contro di loro furono in guerra, ricevendone non di rado dure lezioni di arte militare (come i generali inglesi Harmar e poi St.Clair dalla comunità algonchina guidata da Piccola Tartaruga nel 1790-91). Gli Europei, comunque, tendevano ad utilizzare i nativi, non come schiavi ma come sudditi , a civilizzarli a modo loro, a convertirli, a convincere o costringere i loro capi a riconoscere la superiore autorità dei monarchi europei e dei locali rappresentanti di essi. Ci provarono anche i Russi, cogli Eschimesi e i Tlingit dell'Alaska. Intenti colonialistici, fuor di dubbio.
Ma, quando i coloni Yankee decisero di appropriarsi di tutto l'oro e le altre immense ricchezze di quel paese, senza più spartirle coi loro ex-compatrioti lontani, e fondarono così la nazione americana splendente di immortali principii, dobbiamo registrare che nel giro di pochi anni ogni colonialismo cessò.
La politica degli Americani nei confronti delle popolazioni indiane non fu infatti per niente di colonizzarle. bensì semplicemente di espropriarle di tutto e toglierle di mezzo. E, attesoché i Pellerossa non avevano ( a differenza delle truppe inglesi) una patria lontana da poter raggiungere, ma nessun'altra patria che quella, si diedero a negar loro il diritto alla vita e a sterminarli scientificamente.
C'è una storica frase di un prediletto di Lincoln: il generale Sherman, che sintetizza efficacemente tutto il cinismo di quei predoni dalla Bibbia facile e dalla saliva piena di libertà: "L'unico indiano buono è un indiano morto." Si sostenne addirittura che gli Indiani, compresi i civilizzatissimi Cerokee, non fossero uomini in senso pieno, e pertanto nessun impegno preso con loro fosse vincolante. Si arrivò addirittura a istituire premi per ogni Indiano ammazzato (uomo, donna o bambino, sia pure con tariffa decrescente: 100, 50 o 25 dollari). Un catalogo delle vilissime infamie perpetrate dai Wasechu (Pellebianca) potrebbe riempire un grosso volume, e mi accontento di ricordare gli ignobili, disonoranti massacri di tribù pacifiche e inermi (fonti Yankee), come quello di Chivington a Sandy Creek (29/8/1864 ), quello di Custer il 27.11.1868 al Washita e quello di Crook a Wounded Knee il 29.12. 1890. In tutti e tre i casi si trattava (pagina 51) quasi esclusivamente di vecchi, donne e bambini, per i quali ultimi si applicava la filosofia di un altro prode condottiero di Lincoln, il generale Mackenzie, sterminatore dei Comanches: "Schiacciate tutte le uova e non vi saranno più pidocchi" Affrontare in campo i valorosi guerrieri con le penne d'aquila tra i capelli era un affare serio, pur nella superiorità sempre più schiacciante di numero e di armamento, e la storia delle giacche blu dovette registrare non poche solenni batoste, di cui Little Big Horn è solo la più letterariamente famosa. Molto più comodo e più sicuro, per i civilizzatori invitare i capi a un colloquio di pace e poi assassinarli o catturarli a Da dimenticare: "Cavallo Pazzo, il capo Sioux invitato a colloquio di pace dal generale Crok e fatto assassinare tradimento all'interno dei forti (come Mangas Coloradas degli Apache Ciricawa, Juan Josè degli Apache Mimbreflos, Isomània dei Comanches, Satanka dei Kiowa, Osceola dei Seminole, Cavallo Pazzo dei Sioux Oglala, Manuelito dei Navajos) oppure farli assassinare da sicari prezzolati (come Metacomet dei Wampanoag e Pontiac degli Ottawa). Più comodo massacrare i bisonti a milioni e lasciarli imputridire sull'erba per ridurre i selvaggi alla fame. Più comodo abbrutirli con l'alcool più scadente o meglio distribuire loro coperte infette di vaiolo. Più comodo "schiacciare le uova".
E l'immenso genocidio, in pochi decenni, fu compiuto. Non voglio dilungarmi oltre (se qualcuno desidera maggiori informazioni sono a disposizione) e mi piace ora chiudere a guisa di epitaffio con la descrizione dei civilissimi e democraticissimi Visi Pallidi dettata a fine Ottocento dal vecchio Alce Nero, sciamano dei Sioux Oglala, al giornalista John Neihardt : "Erano gente incomprensibile. Venivano in questi luoghi pieni di bisonti e di cavalli felici, a cercare un inutile metallo giallo che adoravano e che li rendeva pazzi. Vivevano in una sporca marea di menzogne di cupidigia, mentendo senza vergogna e ingannando continuamente se stessi e gli altri; senza decoro, senza dignità, senza canti sacri e grida rituali, capaci soltanto di schiamazzare e di far rumore coi piedi."
E ora, sono venuti qui, a schiamazzare e a insegnarci l'anticolonialismo. (pagina 52)
E milioni di imbecilli europei, davanti alla predica che scendeva da sì alto pulpito, si sono battuti il petto per aver violato il diritto delle genti.
Vediamo noi, che la sporca marea di menzogne e di cupidigia non ha sommersi, di mettere le cose a posto.
L'anticolonialismo generico e moraleggiante, come tutti gli altri apporti della liberazione, è stupido e grossolano. Perché non esiste il colonialismo, esistono i colonialismi, e sono molto diversi l'uno dall'altro. C'è quello buono, quello mediocre e quello cattivo, e solo in malafede o per ignoranza si può fare d'ogni erba un fascio.
Ora, per giudicare un colonialismo, soprattutto se lo si vuol fare dal punto di vista dei colonizzati, la cosa più stolta è dare per scontato che loro ragionino come noi ( o meglio come quelli di noi che sono infarciti di astrazioni liberaldemocratiche). Gli Africani a sud del Sahara, invece, se ne fregano altamente dei "diritti politici", che considerano una buffa moda dei bianchi come la cravatta e le scarpe con lo scrocchio. Se ne fregano altresì se quelli che comandano siano neri come loro, o bianchi o magari verdi. Quello che loro pretendono è di essere governati bene: con rispetto, con giustizia, con competenza e con fermezza. A quello bisogna guardare. Per gli Africani a nord del Sahara (africani come noi, che ci stavamo da otto secoli prima di loro) la valutazione è diversa, in quanto la differenza razziale è insignificante, mentre pesa molto quella culturale-religiosa, da tenersi in massimo conto nei rapporti con essi.
Considerando le cose cum granu salis, distingueremo il colonialismo di puro sfruttamento del suolo e delle genti autoctone (tipo quello britannico); quello di insediamento nelle zone migliori, lasciando le altre agli indigeni in relativa autonomia (tipo quello olandese, o belga, o - in parte - francese); quello di fusione e meticciato con le province d'oltremare (tipo quello portoghese); e infine il nostro, italiano e romano, per cui possiamo soltanto provare orgoglio e rimpianto. Ricordiamo la nostra colonia primogenita, l'Eritrea, il cui attaccamento alla bandiera italiana fu sempre commovente, in pace e in guerra, tanto che non vi fu il minimo sussulto indipendentista neanche dopo il rovescio di Adua. La nobile Eritrea che, liberata a forza e suo malgrado, ha dovuto combattere - sola e ignorata - una interminabile e sanguinosa guerra per sottrarsi alla barbara dominazione etiopica.
Ricordiamo la Somalia, con la pace, ordine e prosperità che vi regnarono col governo degli Italiani e fino alla scadenza del nostro mandato, da raffrontarsi al crollo civile ed economico puntualmente coinciso con l'escomio dei nostri, colle fiorenti colture abbandonate, con le feroci guerre tribali, con la fame, l'anarchia e lo strazio di questi giorni. Alla fine del nostro mandato, il Ministro degli Esteri somalo ebbe a dire: "Trattare con l'Italia mi fa un po' buffo, perché io mi sento italiano!".
Ricordiamo la Libia da noi elevata a (pagina 53) provincia d'Italia, le fattorie nel deserto bonificato assegnate a metropolitani ed Arabi, le linde e ordinate città, le magnifiche strade, gli ospedali, le scuole frutto del nostro lavoro, più che di quello dei locali. Al Comando Generale dei Carabinieri potrebbero mostrarvi lettere ancora degli anni '60, scritte da ex-Zaptiè (i Carabinieri libici), anche assurti a cariche importanti nel nuovo Stato, che professano la loro perdurante fedeltà e auspicano il ritorno della nostra (sic) bandiera.
E ricordiamo anche l'Etiopia, italiana solo per cinque anni, i primi dei quali disturbati, soprattutto all'ovest, dalla guerriglia fomentata e armata dai soliti noti. Il lavoro italiano, cominciando da quello degli stessi legionari conquistatori, si riversò fecondo in quella terra sterminata, compiendovi miracoli tali che Hailè Selassiè rimesso sul trono dai nostri nemici nel '42, non credeva ai suoi occhi. Basti una sola testimonianza: quella proprio del deposto e restaurato imperatore del Leone di Giuda, che - pur essendo un barbaro - era evidentemente molto più "civile" e "signore" di Yankees e Sovietici. Alla morte di Amedeo di Savoia-Aosta, egli lo commemorava definendolo :"l'uomo che ha governato con bontà e giustizia il mio popolo"
Tale fu il nostro colonialismo che, nel '38, il Gran Muftì di Gerusalemme consegnava simbolicamente a un Capo che non era né arabo né mussulmano, la spada dell'Islam. Tale che, persino nel tempo del più violento infuriare della xenofobia anti-bianca in Africa, gli Italiani furono gli unici rispettati ed immuni, dal Corno d'Africa al Golfo di Guinea. Perché tutti i neri, dai Nilotici ai Bahutu, sapevano che era stata una dominazione fatta di ordine, di lavoro, di giustizia e di amore per i sudditi, il ricordo della quale (sia detto per inciso) avrebbe potuto spalancare le porte del continente alla nostra penetrazione civile e pacifica, se al governo dell'Italia non ci fossero stati i lugubri cascami del tradimento e della resa.
A costoro e solo a costoro, con la loro compunta viltà "antifascista", si deve se il tirannuccio di Tripoli ha potuto consumare indisturbato la sconcia rapina del 1971, e anche spacciarla per risarcimento con una sfacciataggine senza limite, quando, a voler pareggiare i conti di dare e avere con l'Italia, non sarebbe bastato il gettito dei suoi pozzi di petrolio per un decennio.
Non abbiamo proprio ragione di pentirci, per quel colonialismo, anzi dobbiamo andarne fieri, sia di fronte agli altri Europei che agli Africani, spernacchiando poi con veemenza qualsiasi sermone d'oltre Atlantico. E chissà che un giorno, ripulita l'Italia dal nefasto politicume che l'ha avvilita, in Africa non si possa tornare, senz'armi ma a testa alta, col nostro lavoro, la nostra organizzazione, la nostra genialità latina, per contribuire alla rinascita di quelle infelici genti dopo gli errori e gli orrori della decolonizzazione.


FERMATA L'ONDA NERA

     «Frenata l'onda nera»; «Trionfo della sinistra»; «Valanga progressista». Questi sono alcuni titoli con i quali la stampa nazionale, evidentemente parteggiante con il vincitore, annunciava l'esito del ballottaggio. Ma dobbiamo essere proprio noi, che non prediligiamo certamente questo sport elettorale in cui vince chi ha più tifosi, a notare la scarsa eleganza democratica della stampa nazionale? Pigliamo l'espressione «onda nera». Per chi la usa, "nero" è un insulto gravissimo. Vuol dire violento, amante della tirannia, o addirittura complice dell'olocausto. E allora sta bene insultare l'avversario? Le minoranze - ci hanno insegnato i democratici - soprattutto quando sono minoranze per un pelo, debbono essere difese, dato che le maggioranze ci pensano da sole. E invece vengono quasi dileggiate, come fanno le tifoserie più degradate, che fischiano l'avversario quando entra in campo. Eh sì, perché, restando in termini calcistici, la partita comincia adesso. Governo e opposizione; vediamo chi gioca meglio.
     Ma poi, leggendo le cifre, un osservatore non fazioso non può che notare esattamente il contrario di quello che gridano i titoli. In effetti c'è stato un massiccio e imprevedibile successo del MSI. Relegato sino ad oggi a livello di minuscolo e innominabile oppositore, s'è trovato a competere testa a testa con tutti i vecchi partiti insieme e quasi li ha battuti. Come partito ha moltiplicato più volte i suoi voti, ha aumentato i seggi, è uscito dal limbo, ha messo paura, è diventato l'alternativa al sistema. E questa sarebbe una sconfitta?
     Diciamocelo poi tra noi: il fatto che il MSI non abbia "vinto" a Roma e a Napoli (poiché in molti altri importanti centri ha pure vinto) è anche meglio. Il degrado di Roma e di Napoli - opera dei partiti che se le sono riprese - non era curabile nel tempo che passerà tra qui e le elezioni politiche. Meglio che le figuracce le facciano i responsabili. Intanto il MSI ha tempo di farsi le ossa e di digerire l'insperato successo.
     Concludiamo con un saluto a Buontempo, che ha avuto a Roma il massimo delle preferenze e sta prorompendo sulla ribalta. In una recente intervista sul Corriere della Sera, concludeva: «... Dentro questa Destra (di Alleanza Nazionale) ci saremo pure noi; ... i fascisti, certo. E siamo tutto quello che volete, tranne quel Mostro orrendo che Rutelli ha evocato...». Appunto uno dei mostri che compaiono sulla nostra copertina.

(Occidentale)

pagina 55

TESTO DEL SANTO CATECHISMO LIBERATORIO
(ricavato per spremitura da mezzo secolo di opportunismo intellettuale)

1° Che cos'è il fascismo?

Il fascismo è violenza

2° Che cos'è il fascismo?

Il fascismo è il sistema dittatoriale

3° Chi ha voluto la seconda guerra mondiale?

La seconda guerra mondiale fu voluta dal pazzo Hitler per diventare padrone del mondo e l'Italia vi fu trascinata dal folle Mussolini, succube del primo

4° Che cos'è la democrazia a suffragio universale?

La democrazia a suffragio universale è, in assoluto, il miglior sistema politico concepibile

5° Che cos'è la libertà?

La libertà è il bene supremo

6° Che cos'è il razzismo?

Il razzismo è l'odio viscerale per le razze diverse dalla nostra e lo stimolo alla violenza contro di esse

7° Che cos'è il corporativismo?

Il corporativismo è l'esaltazione degli egoismi di categoria.

8° Che cos'è il totalitarismo?

Il totalitarismo è la tirannia dello Stato prepotente ed oppressivo, che deprime ogni libero pensiero e iniziativa pretendendo l'adeguamento di tutti e di tutto alla propria volontà.

9° Che cos'è la guerra?

La guerra è violenza e barbarie inutile

10° Che cos'è il colonialismo?

Il colonialismo è la schiavizzazione e sfruttamento che gli Europei perpetrarono ai danni di popolazioni africane e asiatiche soffocandone l'anelito di libertà.

  Due volte al giorno, prima dei pasti e buon appetito!