Storia della banca
GOLDSCHMIED, LEO
Storia della banca, Garzanti, Milano, 1960
Sfizioso libretto di 110 pagine scritto (prima edizione del 1954) prima dell’inizio dei casini grossi, c’era stata “solo” la guerra di Corea, mancavano quattordici anni al ’68, siamo in piena “seconda Bella epoque”.
In breve l’A. parla della nascita dei sistemi di credito e dei principali passaggi per lo sviluppo dei sistemi bancari, un argomento che andrebbe sviluppato nei corsi di storia assieme a quelli sulle comunicazioni, sulla tecnologie militari e alimentari, cioè tutte le cose che a “Storia” vengono oscurati da date di guerre e paci.
Mi ero spesso chiesto perché tante banche in Italia avessero avuto nomi religiosi (Banco di Santo Spirito, San Paolo IMI, per dire due che mi vengono in mente adesso). Sono le vestigia della rete di banchi di pietà che sorsero nel Medio Evo per affiancare il sistema di prestito su pegno con proprietari secolari. Il prestito su pegno è un sistema di credito arcaico con una eccezionale solidità; chi presta denaro trattiene subito l’oggetto dato in pegno, che egli stesso valuta e che vale più di quanto denaro viene concesso, non vi è rischio di perdita. Nel peggiore dei casi il denaro prestato tornerà e il pegno restituito, altrimenti l’oggetto verrà incamerato e il denaro recuperato dalla sua vendita. Il banco non rischia nulla, e questo è naturale: chi ama mettere a rischio il suo denaro? Quando si parla di “sistema bancario” nei testi liberali si descrive un sistema che condivide anche rischi d’impresa per massimizzare le suo opportunità di profitto. Tuttavia questa non è la tendenza naturale: la banca ciecamente aspira a avere alti profitti senza rischi, quindi è disposta a scaricare sul sistema economico l’intero rischio anche a costo di danneggiarlo se si convince che non ne avrà detrimento. La “mano invisibile” di Adam Smith si basa sul contrario, sull’esistenza di questa convinzione.
I banchi di pegno profani profittavano della loro posizione monopolistica di prestatori per il piccolo credito e le autorità ecclesiastiche crearono un sistema “pubblico” di banchi di pegno sacri che offrisse termini più equi, una specie di intervento pubblico a tutela dei consumatori.
L’A., a cui si devono un paio di altri testi bancari (di cui uno dal titolo “Borse infide”) e una guida gastronomica, descrive tutti i passaggi storici, pur se con l’analisi per geografia. Quello che manca, come in altri testi storici sull’economia, è il collegamento con gli avvenimento politici di potenza. Se pure si parla di guerre e di cambi di governo, come di rivoluzioni, e i loro effetti diretti sul sistema bancario, gli effetti indiretti sono ignorati. Come mai la Gran Bretagna non ha mai registrato una crisi finanziaria? Come mai non ha mai chiesto prestiti esteri e anzi è diventata centro di un sistema di moneta internazionale universalmente accettata e fidata prima del dollaro? Come mai la Francia, dopo una periodo di crisi continue in cui ha anche fatto dei record – tipo quattro default pieni in un secolo – sfugge alla ciclicità delle crisi e diventa un paese immune da crisi finanziarie? La risposta è semplice quanto vergognosa: col colonialismo. L’Europa ha costruito la sua ricchezza e potuto assorbire le crisi con il sudore e il sangue di altri popoli. A quel tempo usava così - benissimo. I popoli di quello che chiamiamo “terzo mondo” non erano né migliori né più civili né più umani degli europei che li hanno piegati, non sono “vittime” in senso morale, è andata così e non c’è nulla di cui pentirsi, ricordiamolo anche, il colonialismo perché oggi è inammissibile. Goldschmied non poteva non avere presente la questione, possiamo ipotizzare che la questione degli effetti monetari del colonialismo, soprattutto sulle economie colonizzate non gli erano noti o non li riteneva rilevanti. Il fatto è questo: l’oro dei mogol e del Gran inca è ancora in Europa. Il colonialismo è finito meno di cinquanta anni fa e è durato molti secoli.
Un altro argomento su cui l’A. è abbastanza spiccio è la storia bancaria recente dell’Italia. Quasi appare censoria la scelta di separare la questione dello scandalo della Banca Romana dalle vicende della crisi finanziaria del 1892-1894, come su una fosse solo contenuta nell’altra, solo un male parallelo. Se avete tempo leggetela su wikipedia, a confronto il papà di Renzi e della Boschi sono dei ragazzini. Banconote doppie, gente ammazzata, la mafia, il re e le amanti. Una cosa bella grossa.
Altrettanto liscia passa la questione della lotta tra Banca Italiana di Sconto e Banca Commerciale Italiana, la Comit, oggi fusa dentro il San Paolo IMI. Ne avevo già letto in Manghetti e nelle memorie del figlio di Toeplitz – due libri già commentati. Con le ricerche google scopro un motivo, e lo prendo per sufficiente, per tanta timidezza. L’A. fu capo dell'Ufficio Borsa e direttore centrale della stessa Banca Commerciale Italiana, fu testimone e partecipe di quello scontro che portò al fallimento della Banca di Sconto prima e al crollo poi del sistema Toeplitz che venne statalizzato dal governo fascista. In questo Goldschmied fa un po’ di polemica sul governo autoritario che non sopporta l’esistenza della libera impresa, senza troppa convinzione. Penso i motivi siano due.
La prima è la coda di paglia. Lo scontro avvenne tra due sistemi di potere che avevano entrambi una visione perversa dei rapporti tra sistema bancario e sistema industriale: entrambi i gruppi vedevano uno inglobare l’altro. I Perrone con la Ansaldo volevano le banche a loro servizio, il sistema di banche che avevano in Toeplitz il loro vertice inglobavano il sistema industriale prendendone le quote. Questa è una stortura che ci affligge anche oggi, è un male italiano, una visione dalla Mastro Don Gesualdo delle ricchezze nazionali. “Mio, mio, mio, tutto mio”. Banche che posseggono industrie e industrie che posseggono banche – se non si separano questi sistemi essi non fanno che cercare di coprire gli errori l’uno dell’altro per pagarli tutti in una volta, assieme e scaricandoli sui cittadini. “Too big to fail” è una invenzione italiana.
Altro motivo di tiepidezza del nostro, nel criticare il fascismo, è l’idea che la Repubblica, dal punto di vista bancario, non se ne è allontanata per nulla. Nel 1954 l’IRI e la statalizzazione sono più forti che mai. Si ride quando verso la fine del libro l’A. analizza il sistema bancario sovietico e scrive: “Sembra dunque un sistema bancario non dissimile dall’italiano”.
E parlava un esperto banchiere, finito secondo google durante la guerra a fare il viceconsole USA a Locarno, al servizio dell’OSS, cioè a fare la spia e operazioni di traffico di valuta per gli americani.
Nota finale: riporta a pagina 60 una massima di Keynes: “Meglio infliggere una perdita a chi vive di rendita che far morire di fame la povera gente” – che non può confermarci quanto l’attuale politica economica europea sia marcatamente anti-keynesiana e nemica della povera gente.