ROTTA FUTURA

Letture - Marx, La questione ebraica (1844)

 

in Marx, Karl, La questione ebraica, III edizione, Editori Riuniti, 1971, Roma, pp. 45-88.

 

Riporto la parte finale del testo.

«Il denaro è il geloso Dio d'Israele, di fronte al quale nessun altro Dio può esistere. Il denaro avvilisce tutti gli Dei dell'uomo e li trasforma in una merce. Il denaro è il valore universale: per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell'uomo come la natura, del valore loro proprio. Il denaro è l'essenza, fatta estranea all'uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l'adora.

Il Dio degli ebrei si è mondanizzato,

è divenuto un Dio mondano. La cambiate è il Dio reale dell'ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria.

La concezione che si acquista della natura sotto la signoria della proprietà privata e del denaro, è il reale disprezzo, la pratica degradazione della natura, che esiste bensì nella religione ebraica, ma esiste soltanto nell'immaginazione.

In questo senso Tommaso Münzer dichiara insopportabile "che tutte le creature siano diventate proprietà, i pesci nell'acqua gli uccelli nell'aria, le piante sulla terra: anche la creatura dovrebbe diventar libera".

Ciò che si trova astrattamente nella religione ebraica, il disprezzo della teoria, dell'arte, della storia, dell'uomo come fine a se stesso, è il reale, consapevole punto di partenza, la virtù dell'uomo del denaro. Lo stesso rapporto sessuale, il rapporto tra uomo e donna ecc., diviene un oggetto di commercio! La donna è oggetto di traffico.

La chimerica nazionalità dell'ebreo è la nazionalità del commerciante, in generale dell'uomo del denaro.

La legge, campata in aria, dell'ebreo è soltanto la caricatura religiosa della moralità campata in aria e del diritto in generale, dei riti soltanto formali, dei quali si circonda il mondo dell'egoismo.

Anche qui il rapporto più alto dell'uomo è il rapporto legale, il rapporto verso le leggi, che per lui valgono non perché siano le leggi della sua propria volontà ed essenza, ma perché esse dominano e perché la loro trasgressione viene punita.

Il gesuitismo giudaico, il medesimo gesuitismo pratico che Bauer indica nel Talmud, è il rapporto del mondo dell'interesse individuale con le leggi che lo dominano, la cui astuta elusione è l'arte suprema di questo mondo.

Invero, il movimento di questo mondo entro le sue leggi è necessariamente una costante soppressione della legge.

Il giudaismo, come religione, non ha potuto, da un punto di vista teorico svilupparsi ulteriormente, poiché la concezione del bisogno pratico è per sua natura limitata e si esaurisce in pochi tratti.

La religione del bisogno pratico, per la sua essenza, poteva trovare il compimento non nella teoria ma soltanto nella prassi, appunto perché la sua verità è la prassi.

Il giudaismo non poteva creare un nuovo mondo; esso poteva solo attirare nell'ambito della propria attività le nuove creazioni ed i nuovi rapporti del mondo, perché il bisogno pratico, il cui intelletto è l'egoismo, si comporta passivamente e non si amplia a piacere, ma si trova ampliato con il progressivo sviluppo delle condizioni sociali.

Il giudaismo raggiunge il suo vertice col perfezionamento della società civile; ma la società civile si compie soltanto nel mondo cristiano. Soltanto sotto la signoria del cristianesimo, che rende esteriori all'uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici, la società civile poteva separarsi completamente dalla vita dello Stato, lacerare tutti i nostri legami dell'uomo con la specie, porre l'egoismo, il bisogno particolaristico, al posto di questi legami con la specie, dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmente contrapposti gli uni agli altri.

Il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Nel giudaismo esso si è nuovamente dissolto.

Il cristiano era fin da principio l'ebreo teorizzante, l'ebreo è perciò il cristiano pratico, ed il cristiano pratico è diventato nuovamente ebreo.

Solo in apparenza il cristianesimo aveva superato il giudaismo. Esso era troppo nobile, troppo spiritualistico per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico in altro modo che mediante l'elevazione nel puro aere.

Il cristianesimo è il pensiero sublime del giudaismo, il giudaismo è la piatta applicazione del cristianesimo, ma questa applicazione poteva diventare universale soltanto dopo che il cristianesimo in quanto religione perfetta avesse compiuto teoricamente l'autoestraneazione dell'uomo da sé e dalla natura.

Appena allora il giudaismo poteva pervenire alla signoria universale e fare dell'uomo espropriato, della natura espropriata oggetti alienabili, vendibili, caduti sotto la schiavitù del bisogno egoistico, del traffico.

L'alienazione è la pratica dell'espropriazione. Come l'uomo, fino a che è impigliato nella religione, sa oggettivare il proprio essere soltanto facendone un estraneo essere fantastico, così sotto il dominio del bisogno egoistico egli può operare praticamente, praticamente produrre oggetti, soltanto ponendo i propri prodotti, come la propria attività, sotto il dominio di un essere estraneo, e conferendo ad essi il significato di un essere estraneo: il denaro.

Il cristiano egoismo della beatitudine nella sua pratica compiuta si capovolge necessariamente nell'egoismo fisico dell'ebreo, il bisogno celeste in quello terreno, il soggettivismo nell'egoismo. Noi spieghiamo la tenacia dell'ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano della sua religione, il bisogno pratico, l'egoismo.

Poiché l'essenza reale dell'ebreo nella società civile si è universalmente realizzata, mondanizzata, la società civile non poteva convincere l'ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è appunto soltanto la concezione ideale del bisogno pratico. Non quindi nel Pentateuco o nel Talmud, ma nella società odierna noi troviamo l'essenza dell'ebreo odierno, non come essere astratto ma come essere supremamente empirico, non soltanto come limitatezza dell'ebreo, ma come limitatezza giudaica della società.

Non appena la società perverrà a sopprimere l'essenza empirica del giudaismo, il traffico e i suoi presupposti, l'ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto, perché la base soggettiva dei giudaismo, il bisogno pratico si umanizzerà, perché sarà abolito il conflitto dell'esistenza individuale sensibile con l'esistenza dell'uomo come specie.

L'emancipazione sociale dell'ebreo è l'emancipazione della società dal giudaismo

(Marx, Karl, La questione ebraica, III edizione, Editori Riuniti, 1971, Roma, pagg. 84 - 88. Trascritto dall'Organizzazione Comunista Internazionalista (Che fare), nel Gennaio 2003). 


 COMMENTO

Nel brano finale del saggio l'A. sembra escludere la possibilità che l'ebreo e chiunque, anche cristiano, che agisca come l'ebreo, possano essere membri della società civile dello stato che Marx immagina. Chi mette i bisogni pratici e egoistici alla base della propria azione e ha nel denaro, nella cambiale e nel traffico il proprio dio va emancipato dalla società.

Non quindi è strano che chi scrive abbia trovato in una prefazione al Mein Kampf di A. Hitler un richiamo a questo saggio di Marx.

Il superamento di questa posizione marxista, come di molte altre, richiede la nostra ridefinizione di cosa siano società e stato, di cosa sia un uomo e i suoi diritti.