ROTTA FUTURA

1987-Il Secolo - Modernizzazione non vuol dire omologazione

Il Mezzogiorno e i modelli culturali del Nord

Modernizzazione non vuol dire omologazione

Il tentativo di superamento del «gap» tecnologico
con le regioni settentrionali non deve
condurre il Meridione all'accettazione passiva
di valori estranei alla sua tradizione


Per «modernizzazione» del Mezzogiorno si intendono solitamente due cose: da un canto la modernizzazione è interpretata quale apertura alla civiltà moderna razionalistica e cartesiana, ai suoi valori illuministici e materialistici con pratico ripudio del grande patrimonio tradizionale delle genti meridionali considerate così almeno implicitamente «arretrate»; sotto un secondo aspetto la modernizzazione è vista come un processo di sviluppo economico volto a fare del Mezzogiorno un'area geo-politica economicamente forte, magari industrializzata e comunque con un'agricoltura industrializzata,

all'avanguardia e fortemente competitiva. I due aspetti, secondo la pubblicistica liberale e marxista sarebbero strettamente collegati e interdipendenti: in altri termini non si potrebbe avere la modernizzazione tecnologica e industriale senza avere prima quella «ideologica». Il Mezzogiorno sarebbe sottosviluppato anche e soprattutto per la mentalità arretrata dei suoi abitanti. Non vi sarebbe una classe imprenditoriale non per ostacoli obiettivi o frapposti dallo Stato, ma per una mentalità pervasa di «residui feudali».

La resa ideologica
Ora il pretendere una resa ideologica del Mezzogiorno, una sua accettazione passiva di valori estranei alla tradi-zione meridionale non sembra essere una «conditio sino qua non» per il superamento del «gap» economico con il Nord, ove si guardi all'esempio del Giappone imperiale che nella seconda metà del secolo scorso seppe modernizzarsi sotto il profilo economico, industriale e tecnologico pur mantenendo sostanzialmente fede alla tradizione dei «samurai», almeno fino al 1945. Inoltre, tornando al caso del nostro Mezzogiorno, occorre dire che la modernizzazione ideologica si è in gran parte già da tempo verificata, come dimostrano in questi quaranta e più anni di democrazia i risultati dei vari referendum: se nel referendum istituzionale del 1946 il Mezzogiorno andò contro corrente dando il 67,4% dei voti alla monarchia, già nel referendum sul divorzio i «si» furono appena il 52,1% contro la media nazionale del 40,7 e in quelli sull'aborto vi è stata addirittura una omogeneizzazione rispetto al Settentrione con lievissimi scarti.
Dunque, la mentalità dei meridionali odierni — soprattutto nelle grandi aree metropolitane — è altrettanto consumistica, laica, materialista di quella degli Italiani del Nord. Ma non sembra che questo abbia de-terminato uno sviluppo economico e grandi iniziative imprenditoriali, confermandosi così l'antica idea che il Mezzogiorno più che economicamente «depresso» e in realtà «compresso», essendo dovuta la sua inferiorità a fattori esogeni prima che endogeni. La modernizzazione ideologica, del resto, non è stata mai foriera di miglioramenti economici e di salti di qualità nella storia del Mezzogiorno, producendosi anzi il contrario. La cosiddetta «repubblica partenopea» del 1799, instaurata da pochi intellettuali protetti dai francesi, fu in fondo un tentativo di modernizzazione, anche a detta dei suoi attuali nostalgici. Ma la situazione economica del Mezzogiorno in quei sei mesi circa peggiorò e non migliorò, soprattutto nelle campagne e per i contadini, i quali trovarono la nuova proprietà borghese ben più oppressiva di quella feudale.
Situazione che si ripeterà nel «decennio francese» 1805-1815 come con la legislazione eversiva seguita all'unificazione nazionale del 1860. Anzi il periodo 1860-76 significherà la distruzione dell'industria meridionale, travolta dalla concorrenza delle industrie del Nord in un unico mercato nazionale. Napoli nella seconda metà del secolo scorso conobbe una grande vitalità culturale di tipo appunto «moderno» con capacità trainante anche nei confronti del resto della Nazione; come dimostrano la scuola idealista e storicista di Bertrando Spaventa e poi di Croce, il marxismo di Antonio e poi di Arturo Labriola e di Ciccotti, il positivismo di Giustino Fortunato e di Nitti. Ma questi furono anche gli anni in cui prese avvio la decadenza di Napoli e il degrado economico, sociale e urbanistico dell'intero Mezzogiorno.

Storie parallele
La modernizzazione tecnologica e industriale del Mezzogiorno ha invece una diversa storia, non sempre parallela alla precedente. Il primo reale tentativo di modernizzazione fu proprio operato nel decennio giolittiano grazie alle pressioni di Nitti e di certo meridionalismo d'avanguardia. Con una delle tante contraddizioni della politica italiana il regime giolittiano, che si reggeva su un blocco storico antimeridionale tra capitalismo monopolistico del Nord e classe operaia urbanizzata e industriale del Nord — complici gli agrari meridionali —, tentò un processo di sviluppo «elettro-irriguo» che finì con l'arricchire società elettriche aventi quasi tutte i centri direzionali e gli azionisti ubicati nel Nord. Non a caso in tale progetto di sviluppo confluirono interessi, oltre che di tecnocrati di area nittiana, di personaggi quali Luigi Della Torre, vicepresidente della Edison, di Filippo Turati e di esponenti industriali e bancari milanesi.
Fu allora che nacquero, pronube Nitti, le prime leggi speciali per il Sud, compresa quella per Napoli. E già allora, come avverrà dopo il 1950 con l'istituzione della Casmez, l'intervento ordinario si contrasse e il divario Nord-Sud ebbe ad aumentare. Il tentativo di modernizzazione industriale finì col limitarsi all'area napoletana e si risolse spesso in un grosso affare per i gruppi elettrici dal Nord e per le imprese
Commerciali che stavano dietro di essi. Naturalmente la pubblicistica liberale e marxista, tranne eccezioni, salutò i gruppi elettrici come «progressisti», in quanto sconvolgenti precedenti resti di rendita o «parassitismo», annunciatori del trapianto anche nel Mezzogiorno della civiltà capitalistica. Lo stesso Turati, ormai su posizioni riformiste, riteneva necessario ai fini del socialismo che la modernizzazione e quindi il capitalismo industriale si estendessero alla «mezza Italia ancora estranea alla civiltà capitalistica», Uno scetticismo davvero profetico si ebbe invece da parte di Giustino Fortunato per il quale «Le leggi speciali sono goffe raffazzonature, ineseguibili in tutto salvo che nello sperpero».


Il terzo tentativo
Il secondo tentativo di modernizzazione economica si ebbe nel ventennio fascista, con interventi fino al 1930 solo in agricoltura attraverso le «bonifiche integrali» e dopo quell'anno anche nell'industria attraverso l'Iri. Anche in quel periodo di insediamenti industriali si verificarono quasi esclusivamente nella parte costiera della Campania e non si ebbe quindi, anche per il sopravvenire degli eventi bellici, un riuscito globale processo di moderning7ione economica del Mezzogiorno. Resta il fatto, però, -riconosciuto più volte anche dal Saraceno, che nella seconda metà degli anni '30 ebbe ad accorciarsi il divario Nord-Sud, il che significa che proseguendo su quella strada si sarebbe forse azzerato. E la relativa modernizzazione tecnologica e industriale non si accompagnò a una modernizzazione ideologica, dato il carattere di «regime reazionario di massa», secondo la definizione di Togliatti, che aveva il fascismo. Era insomma una modernizzazione senza «modernismo», senza il prostrarsi acritico dinanzi al feticcio della modernità.
Quanto al terzo tentativo, quello operato dall'odierno regime dagli anni '50 sino alla metà dei '70 sull'onda di suggestioni keynesiane, ne abbiamo parlato e ne parliamo fin troppo. In questo caso, tranne nella prima fase esclusivamente democristiana — quando la Dc era ancora il partito di De Gasperi e Scelba e non era ancora divenuta l'odierna centrale affaristica —, si volle procedere parallelamente alle due modernizzazioni, almeno secondo la «filosofia» dei La Malfa, dei Rossi-Doria, dei Compagna con i risultati che tutti conoscono. La presenza di una forte Destra meridionale, laurina e missina che fosse, venne tacciata come residuo di arretratezza con funzione frenante rispetto al processo di modernizzazione. Tesi smentita dal fatto che, quando il laurismo finì e la Destra venne ridimensionata, il Mezzogiorno andò indietro e non andò avanti, segnando ancor più il passo il processo di modernizzazione economica. Anzi ogni fase di crescita della Destra ha in genere avuto effetti stimolanti per provvedimenti concreti volti ad arrestare pericolose emorragie di voti.
Sarebbe comunque azzardato affermare che un certo tipo di modernizzazione anche tecnologica e industriale non abbia avuto luogo in questi quarant'anni nel Sud. Soltanto che si è trattato di un processo sempre ritardato, volutamente ritardato rispetto a quello che contemporaneamente avveniva nel Nord. Processo volto più ad inseguire il Nord per mantenere l'economia meridionale funzionale rispetto a quella settentrionale che non a colmare il divario. In tal modo il Mezzogiorno appare sì modernizzato, ma sempre con venti o trent'anni di ritardo almeno rispetto al Nord. Insomma, il Mezzogiorno appare ogni volta com'era il Nord qualche decennio prima. La legge sulla riconversione e ristrutturazione industriale, ambigua nel testo, ha finito col favorire definitivamente il Nord grazie alle maggiori capacità da parte delle grandi imprese di superare gli ostacoli burocratici per avvalersi di certe provvidenze.
Il Sud ha così perduto in gran parte il ricchissimo patrimonio culturale della sua civiltà essenzialmente precapitalistica, facendosi assorbire dal «giansenismo» dinamico del Nord, senza nulla guadagnare in cambio in termini di sviluppo, di industrializzazione diffusa e non occasionale, di produttività, di perequazione dei consumi e dei redditi individuali. È riuscito ad esportare nel Nord e ad imporre la parte peggiore di sé stesso con la «triplice» mafia-camorra-'ndrangheta. Non si è risolta la questione meridionale ma, grazie ad emigrazione e malavita, si è accesa la «questione settentrionale» con sviluppi nei prossimi anni che neppure possiamo prevedere.


Gabriele Fergola